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Il corpo del Papa

La mano del medico stretta nell'ora più buia, mentre saliva al Calvario. Non c'erano croci cui sorreggersi, come Wojtyla nella sua ultima Via crucis

Matteo Matzuzzi

“La malattia impone una domanda di senso che si rivolge a Dio”, disse Francesco. Mentre lo sguardo del mondo si posa sulla sua infermità, lui fissa la Croce. Come Giovanni Paolo II, vent’anni fa, la sera del Venerdì santo

C’è tutta l’umana consapevolezza della propria fragilità nella scena descritta dal professor Sergio Alfieri, il capo dell’équipe che ha curato il Papa al Gemelli per più d’un mese. Nei momenti peggiori, quando “non si sapeva se avrebbe superato la notte”, Francesco senza poter dire nulla stringeva la mano del medico. Era idealmente la  lenta e affannata salita al Golgota, il suo Calvario. Non c’erano croci cui sorreggersi, come fece Giovanni Paolo II nella sua ultima Via Crucis, collegato dalla cappella del Palazzo apostolico e ripreso di spalle, mentre al Colosseo si dava eco alle meditazioni preparate dal cardinale Ratzinger, quelle sulla “sporcizia” che fa male alla Chiesa. Karol Wojtyla pareva fissare il crocifisso come intento in un dialogo profondo e riservatissimo, consapevole che la fine terrena era vicina, nonostante bollettini e aggiornamenti che (come sempre accaduto nei secoli) davano conto di miglioramenti con toni tutt’altro che rassegnati all’ineluttabile. Un amen, quello del Papa polacco, mentalmente sussurrato, il così sia che poi è una delle più frequenti espressioni del Vangelo, a cominciare dalle parole che Maria dice all’Angelo mentre questi le annuncia il destino che l’attende, essere la madre di Dio.

 

Il ricovero di Francesco non è stato mediatico come quello di Giovanni Paolo II, con le telecamere che riprendevano in diretta l’uscita dal Gemelli e lo scortavano, lui in papamobile, verso il Vaticano, tra ali d’una  folla gioiosa e al tempo stesso commossa. Non ci sono stati gli Angelus dal decimo piano dell’ospedale. Solo un audio trasmesso in piazza San Pietro, quindi una foto: Francesco con la stola viola, gli occhi pesanti rivolti verso il basso e una piccola croce sull’altare. Nient’altro. E’ sempre, anche qui, il senso del fiat cristiano. S’è detto e scritto, in queste settimane, dell’inizio di “nuovo” pontificato, con il Papa malato silenzioso e riparato dagli occhi del mondo. Quasi come il Giovanni XXIV di Guido Morselli, che non viaggiava né dava interviste né – salvo imperativi categorici o doveri d’ufficio – lasciava la tenuta di Zagarolo alla volta di Roma. Più banalmente, il ritorno a quella che è stata la prassi per secoli, con il Vicario appartato che non si vedeva né si sentiva quasi mai. E i più ignoravano dunque malanni e, a volte, deliri. Congetture su quel che potrà o non potrà fare, sulle apparizioni programmate e – addirittura – sui viaggi internazionali da programmare o cancellare. Non si sa, i severi piani dei medici potranno scontrarsi con la volontà e la testardaggine di Francesco, che di andare in ospedale aveva poca voglia – il professor Alfieri al Corriere della Sera ha detto “forse era un po’ contrariato” – e che verosimilmente tra un po’ si stancherà pure dei salottini di Santa Marta. 

 

Ha detto ad Avvenire mons. Pierantonio Tremolada, vescovo di Brescia che “nella malattia capisci ancora meglio e davvero che non siamo i padroni di noi stessi. Nell’esperienza della fragilità, della debolezza estrema, della malattia grave che mette a rischio la tua vita, per non cadere nello smarrimento sei chiamato a crescere nella pazienza, nell’umiltà, nella fiducia in Colui che guida le nostre esistenze. Quella fiducia è l’anima della nostra fede. Con quella fiducia, come pastore chiamato a servire la Chiesa, metti a disposizione la tua vita per il tempo che il Signore vorrà”. Mons. Tremolada dovette lasciare per un periodo la guida della diocesi per curarsi: chemioterapia e quindi trapianto di midollo osseo. “Questo lo capisci meglio quando hai consapevolezza che quel tempo potrebbe concludersi presto. E questo ti dà pace. Ti ricorda che non siamo indispensabili, ma solo servitori inutili: consapevoli che quello che diamo e offriamo si colloca in una prospettiva di grazia più grande”. 
Appaiono allora fuori luogo, come note stonate, le chiacchiere di metà febbraio sulle dimissioni, sul volteggiare di corvi sul letto papale, quasi si trattasse della malattia di un dirigente d’azienda anziché del vicario di Cristo in terra. Sembrava mancare la dinamica escatologica;  nei bollettini – freddi come devono essere – all’inizio non si menzionava neppure la preghiera. Non si parlava di unzioni, sia mai in questo mondo di tabù stratificati: sarebbe segno di morte imminente. Basti solo guardare il panico scatenato dal spes contra spem sfuggito al cappellano del Gemelli... una citazione paolina intesa come il lugubre rintocco della campana a morto. Tanto da costringere il povero prete se non a rettificare, a spiegare meglio cosa intendesse, al Tg1 delle 20. Abiura pubblica dinanzi alla platea televisiva italiana. Ci sono stati cattolici che controllavano il gonfiore del volto papale per poi discuterne la domenica a messa con il vicino di panca, che cercavano le tracce di mascherine e naselli nella foto diffusa dall’ospedale, che  misuravano l’ampiezza geometrica del gesto benedicente: quanto ha alzato il braccio? Tanto o poco? Ha gli aghi? Chissà. 

 

Quello apparso per il saluto a tutti e alla “signora con i fiori gialli” era il volto di un sopravvissuto. Francesco ha visto la morte e ne era consapevole. “E’ brutto”, ha detto ai medici che constatavano il peggioramento delle sue condizioni. E la morte può essere sì anche “sora”, ma poi quando uno vi si trova davanti  è solo un uomo e anche “l’attesa trepidante dell’incontro finale con Dio” viene almeno per un istante velata dal grido di Gesù che domandava al Padre perché l’avesse abbandonato. Anni fa circolava un simpatico video con un vescovo che chiedeva all’anziana perpetua: “Sorella, non vuole incontrare il suo Sposo?”. E lei, un po’ imbarazzata, con il sorriso rispose: “Il più tardi possibile”. Certo, l’uomo di fede poi consegna a Lui il suo spirito. Però in quell’istante, per un attimo, la dimensione umana prevale. Lo si è visto in queste settimane, scambiando qualche parola con i pellegrini in piazza San Pietro, con le comitive che s’apprestavano a varcare la Porta Santa: il senso di vuoto era percepibile, non c’è il Papa e ciò è quasi incomprensibile. L’idea che potesse morire, come tutti e come i 265 Papi prima di lui, era considerata una tragedia. 
Ha scritto Edgar Morin che “il peccato, che è l’inconcepibile, l’impenetrabile, il segreto del mondo proprio in quanto è la rottura del mondo, è la morte”. Si chiese Benedetto XVI: “Perché proviamo timore davanti alla morte? Perché l’umanità, in una sua larga parte, mai si è rassegnata a credere che al di là di essa non vi sia semplicemente il nulla? Direi che le risposte sono molteplici: abbiamo timore davanti alla morte perché abbiamo paura del nulla, di questo partire verso qualcosa che non conosciamo, che ci è ignoto. E allora c’è in noi un senso di rifiuto perché non possiamo accettare che tutto ciò che di bello e di grande è stato realizzato durante un’intera esistenza, venga improvvisamente cancellato, cada nell’abisso del nulla. Soprattutto noi sentiamo che l’amore richiama e chiede eternità e non è possibile accettare che esso venga distrutto dalla morte in un solo momento”. 

 

Ci fu una vecchia omelia mattutina di Francesco, a Santa Marta, tutta incentrata su come noi viviamo la morte, come ci accostiamo a essa. “Pensare alla morte non è una fantasia brutta, è una realtà”, disse Francesco. “Se è brutta o non brutta dipende da me, come io la penso, ma ci sarà e lì sarà l’incontro col Signore: questo sarà il bello della morte, sarà l’incontro col Signore, sarà lui a venire incontro, sarà lui a dire ‘vieni, vieni, benedetto da mio Padre, vieni con me’. A nulla serve dire: ‘Ma, Signore, aspetta che devo sistemare questo, questo’. Perché tanto non si può sistemare niente: quel giorno chi si troverà sulla terrazza e avrà lasciato le sue cose in casa non scenda: dove stai ti prenderanno, ti prenderanno, tu lascerai tutto”. Il fatto è che, disse il Papa, “noi siamo abituati a questa normalità della vita e pensiamo che sarà sempre così. Però il Signore, e la Chiesa, ci dice in questi giorni: fermati un po’, fermati, non sempre sarà così, un giorno non sarà così, un giorno tu sarai tolto e quello che è accanto a te sarà lasciato”. “Questo vivere la normalità della vita come fosse una cosa eterna, un’eternità si vede anche nelle veglie funebri, nelle cerimonie, nelle onorificenze funebri: tante volte le persone che davvero sono coinvolte con quella persona morta, per la quale preghiamo, sono poche”. E così “una veglia funebre si è trasformata normalmente in un fatto sociale: ‘Dove vai oggi?’ - ‘Oggi devo andare a fare questo, questo, questo, poi al cimitero perché c’è la cerimonia’”. Allora diventa “un fatto in più e lì incontriamo gli amici, parliamo: il morto è lì ma noi parliamo: normale. Così anche quel momento trascendente, per il modo di camminare della vita abituale, diventa un fatto sociale. Questo io l’ho visto nella mia patria: in alcune veglie funebri c’è un servizio di ricevimento, si mangia, si beve, il morto è lì: ma noi qui facciamo un po’, non dico ‘festa’, ma parliamo, mondanamente; è una riunione in più, per non pensare”.  Osservò Benedetto XVI che “nonostante la morte sia spesso un tema quasi proibito nella nostra società, e vi sia il tentativo continuo di levare dalla nostra mente il solo pensiero della morte, essa riguarda ciascuno di noi, riguarda l’uomo di ogni tempo e di ogni spazio. E davanti a questo mistero tutti, anche inconsciamente, cerchiamo qualcosa che ci inviti a sperare, un segnale che ci dia consolazione, che si apra qualche orizzonte, che offra ancora un futuro. La strada della morte, in realtà, è una via della speranza e percorrere i nostri cimiteri, come pure leggere le scritte sulle tombe è compiere un cammino segnato dalla speranza di eternità”. 

 

Ecco allora che si inizia a comprendere il messaggio implicitamente trasmesso dal corpo malato di Francesco, limitato nei movimenti e nel respiro, con gli occhi pesti e la sofferenza evidente sul volto sfinito. La consapevolezza del peso della croce da portare in quel “pregare” che gli aggiornamenti vaticani sottolineavano nell’ultimo periodo del ricovero papale. Ma “Gesù, come si fa a pregare lì? Come fare quando mi sento schiacciato dalla vita, quando un peso mi grava sul cuore, quando sono sotto pressione e non ho più la forza di reagire?”, scrisse il Papa nelle meditazioni della Via crucis dell’anno scorso. “Ci vieni incontro e ti carichi sulle spalle la nostra croce, per togliercene il peso. Tu questo desideri: che gettiamo in te fatiche e affanni, perché vuoi che ci sentiamo liberi e amati in te”. Il significato di quel pregare lo spiegò anzitempo lo stesso Francesco, dopo che il Covid aveva già falcidiato l’umanità: “L’esperienza della malattia ci fa sentire la nostra vulnerabilità e, nel contempo, il bisogno innato dell’altro. Quando siamo malati l’incertezza, il timore, a volte lo sgomento pervadono la mente e il cuore; ci troviamo in una situazione di impotenza, perché la nostra salute non dipende dalle nostre capacità o dal nostro affannarci”. La malattia “impone una domanda di senso, che nella fede si rivolge a Dio: una domanda che cerca un nuovo significato e una nuova direzione all’esistenza, e che a volte può non trovare subito una risposta. Gli stessi amici e parenti non sempre sono in grado di aiutarci in questa faticosa ricerca”. Si è soli con la propria croce. Come Giovanni Paolo aggrappato al Crocifisso. E come Francesco in quella foto diffusa mentre sostava in cappellina, davanti all’altare.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.