
Pierbattista Pizzaballa è patriarca latino di Gerusalemme dal 2020 (foto LaPresse)
l'intervista
Alla fine di un mondo. Dialogo con il card. Pizzaballa, tra amaro realismo e speranza cristiana
“È finita un’epoca, nel modo peggiore. Il perdono ha bisogno di tempo”. La guerra in Terra Santa, dove “niente tornerà più come prima”. La crisi di un modello di Chiesa il cui problema “non è la rilevanza ma l’avere qualcosa da dire”.
La guerra in Terra Santa, dove nulla tornerà più come un tempo e prima lo si capisce e meglio sarà, per tutti. La Chiesa davanti alle sfide del presente più che del futuro, le crisi che aprono nuove possibilità e la necessità di essere testimoni credibili. Alla fine dello scorso febbraio, a Nola, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, ha dialogato con l’autore di questo articolo in occasione del primo incontro dei “Dialoghi in cattedrale a 1700 anni dal primo Concilio di Nicea”. L’intervista è la trascrizione di un dialogo pubblico, il cui testo non è stato rivisto dal cardinale ma pubblicato con il suo accordo.
Eminenza, quanto accade in Terra Santa è ogni giorno sui nostri schermi televisivi. Prevale una lettura politica di quanto sta accadendo, mentre sappiamo meno dell’impatto che questa guerra ha sulle persone, sulla società.
“Non è la prima volta che abbiamo un conflitto in Terra Santa. Ma questo conflitto ha avuto un impatto come nessun altro. C’è un prima e un dopo il 7 ottobre 2023, anche se facciamo fatica a definire, a capire come sia questo dopo. L’impatto emotivo, economico, psicologico, umano è stato enorme su entrambe le popolazioni, israeliana e palestinese. Per la popolazione israeliana è stato uno choc enorme. Israele è nato come la casa dove gli ebrei sono al sicuro e improvvisamente è emerso che ciò non è più vero. La questione degli ostaggi è il punto dirimente, per Israele. Vediamo manifestazioni di piazza che continuano in tutto il paese. Gli israeliani sono divisi su molto, ma su una cosa vanno d’accordo: la questione degli ostaggi. E’ tema enorme. Anche per i palestinesi ciò che è accaduto dopo il 7 ottobre, a Gaza ma anche in Cisgiordania, è stato uno choc incredibile. Direi per la popolazione araba in generale. Abbiamo a che fare con paura e sentimenti di odio e rancore che, in queste proporzioni, non si erano mai visti. C’è anche da considerare l’impatto economico che la guerra ha sulla vita sociale: parte della popolazione palestinese è rimasta senza lavoro, ma anche in Israele la situazione non è semplice, basti pensare che di fatto non ci sono più pellegrinaggi. Le persone che lavoravano sono state richiamate alle armi. Si vive molto male. C’è un profondo senso di sfiducia che penetra la vita sociale a tutti i livelli. Sarà molto difficile ricostruire la fiducia dopo tutto questo, anche perché non si riesce a vedere cosa ci sarà dopo, quando tutto finirà”.
E sul piano religioso?
“E’ difficile distinguere tra aspetto sociale e aspetto religioso. La religione ha un ruolo pubblico a 360 gradi per tutta la popolazione. Ci sono anche interpretazioni diverse sul significato di guerra. Per i palestinesi quanto è accaduto il 7 ottobre è l’inizio di una nuova fase, di una guerra però, iniziata ottant’anni fa. Per gli israeliani è invece qualcosa di decisamente nuovo e inaspettato. Sono prospettive completamente diverse. Prima di questa guerra, a livello religioso avevamo un’interazione tra varie autorità religiose. Oggi questo non si vede. E’ molto difficile incontrarsi, soprattutto in momenti pubblici. Tutto è fermo. Ciascuno è chiuso dentro la propria narrativa religiosa”.
Millesettecento anni dal Concilio di Nicea. Tra le decisioni adottate, vi fu la condanna dell’arianesimo. A noi può sembrare pura archeologia. Eppure, meno di vent’anni fa, il Papa condannava il “moderno arianesimo”. Disse Benedetto XVI che “la negazione della vera divinità di Gesù è ancora oggi una tentazione per i cristiani”, al punto da rendere necessaria una “catechesi integrale”. Effettivamente, quante volte sentiamo parlare di Gesù come un uomo innamorato di Dio e suo emissario che ha fatto tante cose buone, ma che difficilmente può essere considerato l’unigenito figlio di Dio? Si avverte ancora quel pericolo denunciato da Papa Ratzinger?
“Ho studiato qualche anno in un’università ebraica, a Gerusalemme. I miei compagni erano tutti ebrei, io ero l’unico cristiano. Hanno iniziato a chiedermi della fede, di Gesù, del Vangelo. Risposi: è inutile che io vi spieghi chi era Gesù, c’è il Vangelo, è tutto scritto lì. Leggiamo, mi fate le domande e rispondo. Fui ingenuo e non mi rendevo conto di quello che proponevo loro, perché io, nato nella bassa bergamasca, dove si era cattolici prima ancora di nascere, ero abituato al catechismo classico, tradizionale”.
Senza Dio, la Chiesa non serve. “Dobbiamo essere più convincenti? Non si tratta di fare marketing. Si tratta di saper dire in maniera seria la fede, in maniera solida. Ma per essere convincenti bisogna essere convinti”
“Le mie domande e le mie risposte su Gesù erano quelle del catechismo, non le mie”, dice il cardinale Pierbattista Pizzaballa. “Per questo mi sono accorto che quando loro cominciavano a chiedermi di Gesù, non sapevo rispondere adeguatamente. Il catechismo non serviva molto in quella circostanza. Volevano capire da me il significato di quelle pagine, ma riuscivo solo a balbettare frasi fatte. A un certo punto, una ragazza mi disse: non posso più venire a questi incontri perché devo lavorare, ho un figlio piccolo, e poi questa lettura mi disturba un po’. Poi aggiunge: Gesù è un personaggio che a me piace, non è come mi avevano detto e il Vangelo è un libro bellissimo. C’è una cosa, però, che mi devi spiegare: la resurrezione. Perché deve risorgere? Perché lo fate risorgere? Anche senza resurrezione, Gesù è affascinante. Anche in quel caso, risposi come risponde il catechismo e mi resi conto dal suo volto che non aveva capito niente. Non fui capace di farmi capire. Ci volle del tempo perché capissi che la resurrezione non si spiega. Nei Vangeli non viene spiegata. Ci sono solo incontri con il Risorto. Per rispondere, allora, alla sua domanda: è vero, è molto facile, in ogni tempo, ridurre Gesù a un personaggio che possiamo racchiudere nella nostra comprensione umana. E’ la tentazione di sempre: quel Gesù è facile. Non è segno di contraddizione. Il compito della Chiesa, però, è saper testimoniare che Gesù è il figlio di Dio, come diceva il Concilio di Nicea. Deve trovare il modo di dirlo. La catechesi, la formazione, la liturgia sono imprescindibili. Però senza esperienza di fede, senza l’incontro con il Risorto, diventano solo qualcosa in più da studiare, da imparare o da fare, che non danno vita. Il compito che abbiamo come Chiesa è di essere capaci di dire che Gesù è Kyrios, è il Signore. Di dirlo essendo convincenti, dirlo perché ci crediamo avendone fatto esperienza. E’ quello che forse ci manca oggi. Dobbiamo trovare il modo nel linguaggio odierno di dire la stessa cosa di 1.700 anni fa. La Verità è la stessa, bisogna trovare il modo di esprimerla in maniera convincente. Sarà compresa se chi lo dice ci crede anche, nel senso che ne ha fatto esperienza. Che non si limita a dire le cose del catechismo e basta, come feci io con quella ragazza”.
A proposito di Nicea, la questione della data della Pasqua. Papa Francesco in molteplici occasioni ha auspicato di poter trovare una data unica per la celebrazione della Pasqua. Lei opera in un contesto dove le divisioni fra cristiani sono evidenti, basti considerare le liturgie, i calendari, etc. A suo giudizio è possibile arrivare a una data comune fra calendario giuliano e gregoriano?
“La risposta semplicissima è: probabilmente no. Oltre il novanta per cento delle famiglie cristiane nel Medio Oriente, non solo in Terra Santa, è misto. Cattolici e ortodossi che si sposano tra loro. Non troverete mai una famiglia totalmente cattolica o totalmente ortodossa. I figli vanno a messa a seconda delle situazioni. In alcune zone, tra cattolici e ortodossi c’è anche l’intercomunione. Le famiglie insistono continuamente nel voler celebrare insieme. Per noi, dunque, la questione è pastorale, non teologica. In gran parte del Medio Oriente c’è già un accordo sulla Pasqua. Due terzi della mia diocesi latina (che comprende Giordania, Israele, Palestina, Cipro), ad esempio, segue la data della Pasqua ortodossa. Solamente Gerusalemme, Nazaret e Betlemme seguono il calendario gregoriano. A seconda degli anni, può capitare che quando celebro al Santo Sepolcro la Pasqua, due terzi della diocesi inizia la Quaresima. Questo per motivi pastorali e per venire incontro alle esigenze delle famiglie, che sono miste come dicevo. Cambiare i criteri della Pasqua è complicato, servirebbe un Concilio – o qualcosa di simile – non solo cattolico, ma di tutte le Chiese. Aggiungo che vi sono anche questioni di potere: Mosca non andrà mai d’accordo con Roma sulla data della Pasqua. Ma se anche Mosca e Roma trovassero un accordo, i protestanti o le chiese evangeliche seguirebbero? E se anche tutte le Chiese si mettessero d’accordo, le autorità civili acconsentirebbero? La divisione fra le Chiese è una ferita profonda che ha conseguenze nella vita reale e dobbiamo assumere le responsabilità e le conseguenze di quanto accaduto nel passato. Non si cancellano così facilmente. Non esistono soluzioni ideali. In Terra Santa abbiamo preso coscienza che ci sono problemi che si possono risolvere, altri che non hanno soluzione”.
Torniamo sul moderno arianesimo. “Talvolta in qualche settore del mondo cattolico si giunge persino a pensare che debba essere la divina Rivelazione ad adattarsi alla mentalità corrente per riuscire credibile, e non piuttosto che si debba convertire la mentalità corrente alla luce che ci è data dall’alto. Eppure si dovrebbe riflettere sul fatto che ‘conversione’, e non ‘adattamento’, è parola evangelica”. E’ una citazione del cardinale Giacomo Biffi contenuta nel suo libro “Pecore e pastori. Riflessioni sul gregge di Cristo” (Cantagalli, 2008). Ma “conversione” oggi è una parola impronunciabile, direi “fuori moda”: lo era già quando Biffi scriveva il suo libro. Come riscoprirne il significato?
“Credo che sia ovvio che oggi non si parli di conversione e di peccato. Presuppongono l’esistenza di Dio. Se Dio è presente nella tua vita, senti anche il bisogno di convertirti. Se hai la coscienza della presenza di Dio accanto a te, hai anche la coscienza del peccato e quindi della conversione. Ma se non hai la coscienza della vita trascendente, se non hai coscienza che c’è qualcuno che è fonte di vita e che te la cambia, e non hai bisogno di lui, non hai neanche bisogno di convertirti. Oggi non si parla di conversione perché abbiamo perso la coscienza di Dio. E’ inutile parlare di conversione se prima non si parla di Dio. E’ da lì che bisogna partire. La coscienza di Dio ti porta a capire che di fronte a lui sei sempre mancante e hai il bisogno di convertirti. E’ un itinerario continuo, ma il punto di partenza è la coscienza di Dio. Una Chiesa che non parla di Dio a cosa serve?”.
La speranza. E’ il tema cui è dedicato il Giubileo che stiamo vivendo. Di speranza si sente parlare spesso, sarà anche “la più umile delle virtù teologali” (come l’ha definita Papa Francesco), ma non è chiaro cosa sia la speranza. Non trova che nelle nostre società per “speranza” si intenda il famoso “andrà tutto bene” di pandemica memoria?
“Quando ero un giovane seminarista, ricordo un’omelia nel duomo di Ferrara del vescovo di allora, Filippo Franceschi. Diceva una cosa che non capivo ma che mi rimase impressa: ‘Cristo risorto è la nostra speranza’. Per voi, qui in occidente, è facile confondere speranza e ottimismo. Per noi, in Terra Santa, è facile confondere la speranza con la fine del conflitto o con una soluzione politica. Se si identifica la speranza con un orizzonte solamente umano, per quanto bello e voluto, come la fine del conflitto, ci illudiamo che saremo consolati. Per voi, dicevo, speranza sembra più sinonimo di ottimismo. La speranza, a mio avviso, non è l’attesa di qualcosa che deve venire, ma è espressione della propria esperienza, qualcosa che si ha dentro di sé”.
“Credo che sia ovvio che oggi non si parli di conversione e di peccato. Oggi non si parla di conversione perché abbiamo perso la coscienza di Dio. E’ inutile parlare di conversione se prima non si parla di Dio. E’ da lì che bisogna partire. Il cristianesimo non è una religione, ma un modo di stare nel mondo”
“E’ figlia della fede. Senza fede – dice il cardinale Pizzaballa – la speranza non ha fondamento su cui basarsi. Se credi in qualcosa, lo vuoi anche realizzare. Guardi al mondo con gli occhi di chi è in grado di vedere oltre se stesso. La fede, infatti, trascende, ti rende capace di guardare oltre. I profeti dell’Antico Testamento, ad esempio, cercavano di far vedere al popolo qualcosa che andava oltre. Quando le cose andavano bene, richiamavano il popolo alla conversione, usavano parole di condanna dei loro comportamenti ingiusti. Dicevano: ‘State vivendo ingiustamente, dovete convertirvi’. Quando le cose andavano male, le loro erano parole di consolazione. Isaia, davanti alla Gerusalemme desolata e distrutta, la descriveva come una città meravigliosa. Non era un visionario, ma era capace, per fede, di guardare oltre, di vedere qualcosa che si poteva realizzare. Per tornare allora a quella frase del vescovo di Ferrara, questo è possibile per noi cristiani se la coscienza della risurrezione di Cristo è coscienza vissuta. Se Cristo è risorto e io l’ho incontrato, non c’è nulla che può diventare fine per me. Quindi farei di tutto per costruire, vivere in una luce diversa. Nell’Apocalisse, c’è la descrizione della Gerusalemme che scende dal Cielo: in essa non c’è il tempio e non c’è il sole. L’agnello è la fonte di luce. La luce noi non la vediamo, ma è ciò che ci consente di vedere. Ecco allora che serve quella capacità di vedere. Pensando alla mia esperienza in Terra Santa, dentro questo mare di odio, di guerre, dolore e paura, significa essere capaci di vedere le realtà belle, di cercare le persone che spendono la propria vita per qualcosa di bello: sono i risorti di oggi che ti dicono che c’è ancora luce. Per me questa è la speranza”.
Se andassimo in qualche chiesa e provassimo a domandare quali sono e in che cosa consistono le virtù teologali, secondo lei quante persone ci risponderebbero e in modo corretto? Quanto ignoranti siamo diventati noi cattolici?
“Mia mamma sa cosa sono le virtù teologali. Non so se sia in grado di spiegarle, ma so che le aveva imparate a memoria dal catechismo del suo tempo. Però ha una fede solida, semplice, come quella di tante nostre mamme e nostre nonne, che forse non sapevano tutta la teologia e il catechismo, ma avevano una fede bella, fondata e semplice, ricevuta in famiglia. Il problema oggi è che non si sa il catechismo, ma il più delle volte non si ha nemmeno ricevuto la fede in famiglia. Credo che il catechismo non abbia mai convertito nessuno, non serve se non hai fede. Il catechismo serve ad aiutarti a fare ordine nell’esperienza di fede. Ma se non hai ricevuto la fede, di nuovo, è solo una cosa in più da studiare e verosimilmente da dimenticare. Sono convinto di questo. Oggi il problema non è come insegnare la fede, ma come comunicarla, trasmetterla, donarla. Noi vecchi l’abbiamo ricevuta dai nostri genitori, poi siamo andati sì a catechismo, ma avevamo già qualcosa dentro che aveva solo bisogno di ordine. Quando ho dovuto accompagnare adulti a ricevere il battesimo, un’esperienza sempre forte se fatta bene e che richiede tempo, non iniziavo dal catechismo. Iniziavo con il Vangelo, perché devi innanzitutto fare incontrare Gesù, farlo conoscere direttamente. Hai bisogno di conoscere questa Persona. Poi sono loro che devono capire come vivere questa esperienza, come tradurla nella vita, ed ecco che allora entra in gioco il catechismo. Se non c’è questo incontro con il Signore, la catechesi e la formazione diventano come una cornice bella, costruita, ma senza il quadro dentro. In passato erano le famiglie che trasmettevano la fede, la Chiesa metteva ordine. Oggi le famiglie non la trasmettono più e ci illudiamo che con la catechesi risolviamo il problema. Non ho soluzioni, ma vedo il problema. Da noi è un po’ diverso: si nasce cristiani in un mondo fatto prevalentemente di musulmani ed ebrei. Se però mi si chiede se i miei cristiani sanno il catechismo, direi che lo sanno come lo in occidente”.
Lei ha parlato di mancanza di trasmissione di fede nelle famiglie: la Chiesa non riesce a colmare questo vuoto, a volte sembra spaesata da questo “mondo nuovo”.
“Vorrei fare due brevi considerazioni, sempre facendo riferimento alla mia esperienza in Medio Oriente: da noi, il catechismo si insegnava nelle scuole cristiane. Nei primi anni Settanta, la Siria di Assad nazionalizzò tutte le scuole private. Anche quelle cattoliche, che erano perciò diventate pubbliche. Da quel momento, quindi, non si poteva più insegnare catechismo nelle scuole. La Chiesa fu allora costretta a creare programmi di catechesi pomeridiana nelle parrocchie, che funzionano ancora. Noto, oggi, una grande differenza tra i cristiani siriani, che non studiano catechismo a scuola, e quelli degli altri paesi. Questi ultimi studiano catechismo come studiano matematica e letteratura, mentre i cristiani in Siria no. Per loro è un’esperienza diversa, in tutti i sensi. Sta finendo un modello di Chiesa e non è un mistero. La Chiesa conosciuta da Pasolini sta finendo, ma sono fini lunghe. Mi viene in mente un passaggio biblico (Geremia 27,1): nell’Antico Testamento ci sono alcune espressioni significative ed evocative. Bereshit è una di queste, è la prima parola nella Bibbia: significa “all’inizio”, è un’espressione che indica l’inizio di qualcosa di nuovo. C’è un’altra volta in cui viene pronunciata, in Geremia, appunto. La troviamo in un contesto di totale distruzione, quindi in apparente contraddizione con il significato di quell’espressione: tutto è finito, Israele è cacciato in esilio. Eppure, proprio in quel contesto di fallimento, troviamo un’espressione che parla di inizio. Anche quando tutto sembra finito – osserva il Patriarca latino di Gerusalemme – la fede è in grado di aprire a un nuovo inizio, di vedere il principio di qualcosa di nuovo. Finisce un modello di Chiesa, non la Chiesa. Finisce forse la rilevanza della Chiesa cattolica, ma non la Chiesa cattolica. La sfida non è quella di recuperare, ma di essere Chiesa. Di essere quello che dobbiamo essere. Senza la paura dei numeri. Dobbiamo preoccuparci di saper dire al mondo di oggi che ha fame – ma non sa di averla – che Gesù è il Signore. Alle Nozze di Cana erano rimasti senza vino, ma nessuno se n’era accorto. Solo Maria aveva visto. Noi dobbiamo essere capaci di capire come, dove e da chi trovare questo vino”.
La Chiesa di Gerusalemme può insegnare qualcosa a noi in occidente?
“Siamo la Chiesa madre dopotutto! Anche voi state diventando in occidente una società multireligiosa e multiculturale. Noi siamo Chiesa di minoranza, da sempre. Questo per voi può sembrare un dramma, noi ci siamo abituati. Il problema non è la rilevanza, ma avere qualcosa da dire. Non è scontato, in una situazione così polarizzata, aprire prospettive che non chiudano, costruire fiducia. In questo senso, con tutti i suoi limiti, la Chiesa di Gerusalemme ha qualcosa da dire”.
C’è qualche caso isolato, in controtendenza. Penso alle terre scandinave, piccole comunità dove però i cattolici sono in crescita. Uno dei vescovi di quella regione, mons. Erik Varden, qualche tempo fa mi ha contraddetto: io presentavo un quadro di società “post cristiana”, lui mi ha risposto: “Se vogliamo parlare di ‘pre’ e di ‘post’, mi sembra più appropriato suggerire che ci troviamo alle soglie di un’epoca che definirei ‘post-secolare’. La secolarizzazione ha fatto il suo corso. E’ esaurita, priva di finalità positiva. L’essere umano, nel frattempo, rimane vivo con aspirazioni profonde. La Chiesa possiede le parole e i segni con cui trasmettere l’eterno come realtà”. Lei che dice?
“Sono totalmente d’accordo con mons. Varden. L’uomo che vuole fare senza Dio, fallisce. Alla fine dei conti, arriva a fare esperienza di vuoto. Di vuoto di senso. Non riesce a costruire prospettive a lungo termine. In questa società post secolare l’uomo è rimasto con la fame dentro. Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Mi viene ora in mente l’Inquisitore dei Fratelli Karamazov, ‘dategli il pane e staranno bene!’. Diamo il pane, diamo la giustizia umana… tutte cose che abbiamo già visto. Poi l’uomo si accorge che resta affamato, alla ricerca di qualcosa che gli riempia la vita e il cuore. Lì la Chiesa deve intervenire con la sua proposta. Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi dice che ‘la comunità dei credenti deve essere capace con il suo stile di vita di suscitare delle domande irresistibili: perché quegli uomini vivono così eppure sono felici?’ Chi? Come? La Chiesa deve essere lì non con tante spiegazioni, ma con uno stile di vita. Il cristianesimo non è una religione, ma un modo di stare nel mondo. Questo passa attraverso la comunità ed è il problema che abbiamo nella Chiesa oggi. Comunità dove scorra la vita e penso che su questo si giocherà il futuro della Chiesa”.
Parlava di comunità. Eppure siamo immersi nel paradosso di una società mai così iperconnessa e mai così piena di solitudini, dai giovani agli anziani. Cosa può dire e fare la Chiesa?
“Bisogna saper fare comunità, saper proporre qualcosa di bello e di attrattivo. Non si tratta di adagiarsi seguendo le mode e i tempi, o cominciare a fare le danze in chiesa. Se uno deve danzare, va in discoteca e trova le cose fatte meglio. Bisogna essere capaci di fare la differenza, in queste società dove tutti devono essere uniformati. Quando tu entri in chiesa, entri per una liturgia, entri in una dimensione diversa. Questo si deve percepire. Non è solo un’agape, ma è anche un incontro con la trascendenza. Dobbiamo cambiare messaggio? No, il messaggio è sempre lo stesso. Dobbiamo essere più convincenti? Non si tratta di fare marketing. Si tratta di sapere dire in maniera seria la fede, in maniera solida. Ma per essere convincenti bisogna essere convinti”.
Sarebbe immaginabile oggi una conversione come quella di Claudel? La sensazione, oggi, è quella di una Chiesa che sta un po’ troppo nell’ordinario, molto spesso parlando dai pulpiti di tematiche che poco hanno che fare con la trascendenza e molto con le cose di questo mondo.
“Il rischio c’è sempre, sia nella Chiesa sia fuori dalla Chiesa, quello di non complicarsi la vita, di stare nell’ordinario, fatto di orizzonti normali, che stanno dentro una comprensione solo umana. Mentre invece l’incontro con Dio rompe sempre gli schemi e su questo il cristianesimo – ripeto – deve fare la differenza. Se non la fa, puoi avere anche tante chiese e belle basiliche, ma diventi irrilevante perché non hai niente di importante da dire. Ma non è questione di programmi, bensì di testimoni. La testimonianza diventa efficace se il testimone è credibile. Se non è credibile, il messaggio non passa, anche se dice le cose migliori che si possano sentire”.
“Oggi è difficile parlare di Dio e forse ancor più della Chiesa ai giovani, perché vedono in Dio (e nella Chiesa) un limite alla loro libertà”. Questa frase è di Benedetto XVI. La disse a Loreto nel 2007 rispondendo alla domanda di una ragazza che gli raccontava del peso rappresentato dal “silenzio di Dio” e della difficoltà di parlare di Dio ai propri coetanei. Possiamo dire che a quasi vent’anni di distanza, oggi questa difficoltà si è diffusa. Come può un sacerdote rispondere a una domanda così drammatica?
“Dentro questa guerra, l’odio, la sfiducia, la distruzione, i morti, le ingiustizie, la domanda su dove è Dio ritorna. Io risponderei innanzitutto chiedendo dov’è l’uomo. Non dobbiamo ridurre Dio a colui che risolve i nostri problemi”, aggiunge il cardinale Pizzaballa. “Dio ci ha creati liberi e ci ha affidato la vita del mondo, che è nostra. E spetta alla nostra libertà decidere cosa fare: se scegli il bene vivrai, se scegli il male morirai. Non possiamo accusare Dio di quello che facciamo noi. Dio ci dà i criteri, Dio è il criterio, la luce. E’ l’agnello che illumina, per stare nell’esempio di Gerusalemme. Ma io posso decidere di stare fuori da Gerusalemme. La domanda su Dio diventa una domanda sull’uomo. Penso a Madre Teresa, al buio che ha vissuto. San Francesco per anni ha sperimentato il silenzio di Dio. Penso a Giobbe che ha vissuto a lungo questo silenzio. Penso a Giovanni Battista, che ha annunciato ‘Ecco l’agnello di Dio”, poi si trova in carcere e chiede ma sei proprio tu l’agnello di Dio che doveva venire? Ecco, penso a tutte queste persone che hanno saputo continuare a rivolgere questa domanda a Lui. Noi possiamo risolvere qui, in maniera completa ed esaustiva la domanda su Dio, ma questo non ha molto senso. Ci bastano la Scrittura, la Chiesa, i sacramenti. Quello che ci viene chiesto per fede è di restare nella domanda e di rivolgere a Lui la domanda. Poi vivremo le nostre esperienze. Ma non dobbiamo chiedere a Dio ciò che è compito dell’uomo”. La fede, inoltre, la relazione con Dio, quando autentica e vissuta, non è un limite alla libertà umana, ma è ciò che le da una forma. La Chiesa forse oggi è percepita dai giovani più come una istituzione imponente, con le sue leggi e i suoi “no”, più che una comunità che vive con gioia i suoi ‘si’. Come dicevamo prima, bisogna ripartire dalle comunità al cui interno scorre la vita. E dalla testimonianza”.
Anni Cinquanta del Novecento. A Milano arriva da Roma un nuovo arcivescovo, Giovanni Battista Montini, futuro Paolo VI. Montini si guarda attorno e scorge dietro la cortina della “egemonia religiosa”, evidenze ben diverse: una crescente “irreligiosità”, una catechesi pressoché disertata, la partecipazione alla messa festiva scarsa, i parroci distanti e affaccendati in mansioni burocratiche, le celebrazioni approssimative. Quasi gli stessi problemi che vediamo oggi...
“Non dobbiamo temere i cambiamenti, non dobbiamo vivere di paura. Sta finendo un modello di Chiesa, come dicevo prima. Credo che Benedetto XVI l’abbia detto bene: sappiamo che sta finendo qualcosa ma non sappiamo come sarà dopo. Si definirà col tempo. Anche negli Atti degli apostoli, vediamo che grandi momenti nella storia della Chiesa sono stati frutto di grandi travagli: la questione dei diaconi, l’apertura dell’evangelizzazione ai gentili, ad esempio. Anche questa crisi, dunque, produrrà qualcosa. Le nostre valutazioni sono sempre molto umane, c’è la tentazione del potere, dei numeri, della visibilità. Ci sta anche, eh. Dobbiamo essere visibili. Ma non dobbiamo temere più di tanto questo, perché c’è anche Dio, c’è anche lo Spirito Santo. C’è la Chiesa che, attraverso la testimonianza di tante realtà, crea ancora qualcosa di buono. Qua e là si incontrano tante belle esperienze di chiesa, dove si vive e si cresce. Non avrei troppa paura. Bisogna preoccuparsi, e lo ripeto, di essere autentici, genuini. La Chiesa non deve fare marketing: la Chiesa deve dire che non c’è niente di meglio nella vita che incontrare Gesù Cristo”.
Torno alla situazione in Terra Santa. Eminenza, si tornerà mai come prima?
“Assolutamente no. E’ finita anche per noi un’epoca, è finita in maniera dolorosa, nella maniera peggiore possibile. Ancora non siamo emotivamente liberi di riuscire interiormente a pensare al dopo. E’ una situazione lacerante. Non so cosa capiterà, dipenderà anche dai leader religiosi e politici di sapere aiutare la popolazione ad alzare lo sguardo, a leggere il reale. Siamo talmente accecati all’interno della nostra narrativa da non riuscire a vedere nient’altro che questa. Resteremo tutti là, cristiani, ebrei e musulmani. Non spariremo, non ci saranno ‘riviere’. Per cui bisogna avere la capacità di ricostruire qualcosa che renda almeno sopportabile questa convivenza. Richiederà molto tempo, le ferite sono molte profonde. I tempi di guarigione saranno molto lunghi. Ma non ci sarà guarigione se non ci saranno medici che indichino la cura, che sappiano orientare. Il rischio, da voi, è di pensare che la pace ci sarà sempre. Da noi, il rischio è opposto: pensare che la guerra ci sarà sempre. Non so chi dei due stia peggio. Il compito della Chiesa è quello di essere voce che apre orizzonti, di essere una voce diversa. Qui in Medio Oriente, quando si dice ‘fare la differenza’ significa altro, penso, rispetto a ciò che si intende in occidente. Da noi, significa dire qualcosa che non chiuda, che non sia figlio della paura. Non è semplice, ma credo che sia necessario come l’aria che respiriamo”.
Resteranno, come già accaduto al passaggio dello Stato islamico, cicatrici tra vicini di casa che si denunciavano, tradimenti. Non può esserci riconciliazione?
“Siamo esseri umani, segnati dal dolore e dalle ferite. Ci sono singole persone che sono state capaci di perdonare. Sono esempi mirabili e potenti, di cui abbiamo bisogno. A livello di comunità le dinamiche sono necessariamente diverse. In un contesto sociale, il perdono ha bisogno di tempo. Ha bisogno di una coscienza comune, che non si può imporre dall’alto. La riconciliazione ha bisogno di percorsi di guarigione. Dobbiamo farlo, anche se ciò richiederà molto tempo. La fede ti chiede di farlo, l’incontro con il Risorto te lo chiede. Penso a Gesù che chiede a Pietro ‘mi ami tu?’. Dobbiamo far nostra questa esperienza. Undici anni fa, durante la guerra in Siria e Iraq, ai cristiani fu chiesto di convertirsi o di andarsene: se ne sono andati tutti, pur di non lasciare Gesù Cristo. Lo vediamo oggi nella nostra piccola comunità di Gaza, dove hanno perso tutto, non hanno più niente: eppure sono lì, fermi e saldi nella fede”.