
(Ansa)
L'editoriale del direttore
La contemporaneità di Francesco e la battaglia persa in partenza sulla secolarizzazione
È stato il Papa del dialogo, delle disuguaglianze e della pace. Ha cercato di avvicinare la Chiesa al presente, concentrandosi su temi sociali, ecologici e culturali, ma questo ha sollevato dubbi sulla sua attenzione alla salvezza delle anime. Ora la Chiesa si dovrà confrontare con il crescente secolarismo
Gianfranco Ravasi, cardinale famoso, star televisiva e presidente emerito del Pontificio consiglio della Cultura, ieri mattina, in un’intervista alle agenzie di stampa, ha messo a fuoco un dettaglio interessante – e reale – del pontificato di Papa Francesco, che sarà utile tenere a mente anche nelle prossime settimane, quando si entrerà nel vivo della discussione sul suo successore. Francesco, ha detto Ravasi, è stato un Papa che ha avuto “una sensibilità istintiva alla cultura contemporanea”. La contemporaneità, evidentemente, è stata un tratto cruciale del pontificato di Francesco. Ma dietro a quell’essere contemporanei, dietro a quell’armonia con lo Zeitgeist, con lo spirito del tempo, vi è un tema scivoloso e divisivo, che la Chiesa dovrà inevitabilmente affrontare nella fase di successione: se lo spirito del tempo è secolarista, cioè se la contemporaneità va in quella direzione, assecondarlo significa forse coccolare gli spiriti secolaristi anziché contrastarli? Dire che Francesco abbia laicizzato il cristianesimo è un eccesso retorico. Ma dire che il suo pontificato abbia avvicinato la Chiesa alla dimensione terrena, allontanandola da quella ultraterrena, e dunque dall’evangelizzazione, è una valutazione concreta. Così come lo è osservare che Papa Francesco ha privilegiato le questioni sociali, culturali, ecologiche o geopolitiche rispetto alla missione tradizionale della Chiesa: l’evangelizzazione e la salvezza delle anime.
Papa Francesco è stato più il Papa della povertà, della pace, del dialogo, della giustizia, dell’ambiente, delle diseguaglianze, che il Papa della verità che si incarna e del proselitismo – parola che non amava. Persino la sua predilezione per la parola “Dio” rispetto al nome “Gesù” è stata la spia di un tema più profondo: la nostra verità, quella dei cristiani, è diventata una verità fra le tante. Non vogliamo offendere, non vogliamo prevaricare: il messaggio diventa quello di un Dio ecumenico, accettabile da tutti, non divisivo. Si dirà: e dov’è il problema? Tempo fa, Marcello Pera ha suggerito su questo giornale una tesi interessante: quando la povertà e la giustizia sociale diventano il cuore del cristianesimo, quando la croce diventa un simbolo tra altri, e il Vangelo una piattaforma etica più che un evento salvifico, allora è lecito chiedersi se il cristianesimo sia ancora una religione della salvezza, o piuttosto una religione della giustizia sociale. E dunque è lecito interrogarsi se cerchi ancora la beatitudo – l’edificazione della città di Dio – o miri alla felicitas, cioè alla costruzione della città dell’uomo. Nel libro “Il conclave e l’elezione del Papa” (Marietti 1820), Alberto Melloni – per molto tempo sostenitore convinto di Francesco – ammette che un problema esiste. Fra i temi che, scrive, “lasciano al prossimo Conclave domande aperte” ci sono questioni che Bergoglio ha “evaso”: il ministero e la sua formazione, la salvezza in Cristo, la dignità delle battezzate, il ruolo dei vescovi accanto a Pietro. Essere contemporanei, in linea teorica, potrebbe essere un tentativo di riavvicinare i fedeli alla Chiesa. Ma da questo punto di vista i dati non sono confortanti: secondo l’Istat, nel 2001 circa il 36 per cento degli italiani dichiarava di partecipare settimanalmente alle funzioni religiose.
Nel 2015 la percentuale era scesa al 29 per cento; nel 2022 si è attestata al 15 per cento tra gli uomini e al 22 tra le donne. Attribuire a Francesco la responsabilità di un trend di lungo corso sarebbe però ingeneroso. Il motivo per cui riflettere su cosa significhi davvero “essere contemporanei” è cruciale per avvicinarsi al prossimo Conclave riguarda una questione che supera i confini della religione. Riguarda l’accettazione del secolarismo nella società, oppure il tentativo di combatterlo. “L’occidente – ha detto anni fa Rémi Brague al nostro Matteo Matzuzzi – oggi è come un uomo che vive in una casa costruita dai suoi antenati, ma che non conosce più l’architettura né la ragione della sua stabilità”. La rimozione delle radici cristiane non è neutra: indebolisce le strutture morali e culturali della libertà occidentale. E quando una società smette di credere in Dio, scriveva G. K. Chesterton in “Orthodoxy” (1908), non è vero che non si crede più a nulla: si finisce per credere a tutto.

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