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L'equilibrio impossibile tra Papa Francesco e la Russia

Stefano Caprio

Le enormi ambizioni dell’accordo con Kirill. E poi la guerra di Putin:  Francesco che grida alla pace, difende Kyiv ma non condanna mai direttamente il Cremlino, sperando in una riconciliazione futura

In occasione dell’ultimo incontro del Papa con Putin, il vescovo cattolico di Mosca, mons. Pezzi, si disse “entusiasta” per le nuove possibilità di dialogo “sulla pace e sulla difesa del creato”, escludendo comunque la possibilità di un viaggio del Papa a Mosca, per cui “serve il consenso della Chiesa ortodossa”. Pezzi ricordava giustamente che “le relazioni sono iniziate moto tempo fa”, e riguardavano i temi cari al Santo Padre del progresso della pace, la salvaguardia della casa comune e la difesa del creato. Il vescovo ricordava allora che “la Russia è una nazione essenziale per la pace, e il Papa è molto interessato alla pacificazione tra i popoli”. Tra l’incontro del 2015 e del 2019, oltre all’evoluzione delle tensioni tra Russia e Ucraina e a livello internazionale, si era consumato lo storico abbraccio dell’Avana.

La lunga attesa aveva finalmente raggiunto il suo compimento: la Terza Roma si era riconciliata con la Prima Roma, per salvare la Seconda. Il Patriarca Kirill aveva voluto approfittare, il 12 febbraio 2016, della visita contemporanea con il Papa Francesco a Cuba, per segnare un passo storico che non avrebbe in alcun caso lasciato a un suo successore, ed esprimere l’unità delle chiese in difesa dei cristiani perseguitati in medio oriente e nel mondo intero. “Finalmente!”: è la prima parola che Papa Francesco e il Patriarca russo ortodosso Kirill si sono scambiati abbracciandosi nel salone dell’aeroporto della capitale cubana. La prima volta di un papa e un patriarca di Mosca – divisi in passato da secoli di scomuniche, differenze teologiche e violenze reciproche – è avvenuto in un luogo spoglio e “laico”. Unica nota di colore sono state le bandiere, verde per il patriarcato, bianca e gialla per il Vaticano. Con modi distesi e fraterni i due capi si sono seduti e hanno cominciato a parlare. Kirill ha sottolineato “la lunga distanza percorsa” per incontrarsi, dicendo subito che questo “è un incontro voluto dalla Santissima Trinità”. Entrambi hanno riconosciuto di aver “desiderato” e “aspettato tanto questo incontro”. Il Patriarca ha accennato alle difficoltà avute “negli ultimi dieci anni”, che “non sono scomparse”, come le accuse di proselitismo e il problema dei greco-cattolici, ma – ha aggiunto – “oggi abbiamo la possibilità di riempire il nostro cuore”. Il Papa ha concluso: “Siamo fratelli, abbiamo tutto in comune. Il Signore ci ha mandato a Cuba per unirci di più”. In effetti, l’appuntamento dell’Avana è sembrato provvidenziale: Kirill si trovava là per una visita pastorale alle comunità ortodosse, l’aereo di Francesco ha fatto a Cuba la sosta tecnica prima di giungere in Messico per il suo undicesimo viaggio apostolico fuori d’Italia. Accompagnandosi reciprocamente, il Papa e il Patriarca hanno continuato poi il loro incontro in privato per quasi due ore. Alla fine sono usciti ancora nel salone e sedendosi a un tavolo, hanno firmato due copie della Dichiarazione comune, che si sono poi scambiate abbracciandosi ancora. Alle loro spalle una grande icona della Madonna Odigitria (“Colei che indica la Via”). Quindi, alla presenza delle due delegazioni e del presidente cubano Raul Castro, il Patriarca Kirill e Papa Francesco hanno tenuto un breve discorso a braccio, in un tono molto confidenziale. 

 

Kirill, parlando per primo, ha detto che l’incontro “ci ha dato la possibilità di comprendere e sentire la posizione l’uno dell’altro”. “Il risultato di questo colloquio – ha aggiunto – è che le nostre chiese possono lavorare attivamente insieme difendendo i cristiani di tutto il mondo e con piena responsabilità affinché non ci sia più la guerra; affinché ovunque la vita umana sia rispettata, perché si rafforzino le fondamenta della morale, della famiglia e della persona e perché attraverso la partecipazione della comunità cristiana alla comunità umana possa essere glorificato il santissimo nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo”. Anche Francesco ha sottolineato lo spirito del loro incontro: “Abbiamo parlato come fratelli, abbiamo lo stesso battesimo, siamo vescovi, abbiamo parlato delle nostre chiese. L’unità si costruisce camminando. Abbiamo parlato chiaramente senza mezze parole. Vi confesso che ho sentito la consolazione dello Spirito in questo dialogo”. Egli ha poi ringraziato il Patriarca Kirill per “la sua umiltà fraterna e il suo forte desiderio di unità”. Il pontefice ha parlato di “una serie di iniziative” emerse “che sono fattibili e che credo si potranno realizzare”. Un ultimo pensiero il Papa l’ha rivolto al presidente Castro, ringraziandolo “per la sua disponibilità attiva” e ha aggiunto: “Se continua così Cuba sarà la capitale dell’unità”. In effetti, nell’isola fiorisce da molto tempo un buon rapporto fra ortodossi e cattolici. Come già Kirill, anche Francesco ha concluso il suo discorso con una dossologia: “Che tutto questo sia per la gloria di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo per il bene del popolo di Dio sotto il manto della Santa Madre di Dio”.

 

Lo storico incontro dell’Avana è stato improvviso, anche se non proprio imprevisto. I due bianchi patriarchi (quello di Mosca è l’unico, oltre al Papa di Roma, a portare un copricapo bianco) hanno raggiunto una meta da lungo cercata e preparata, e più volte sfiorata nei decenni precedenti; l’occasione è stata sfruttata con estrema accortezza e maestria diplomatica, senza lasciar nulla trapelare nelle lunghe trattative, ma la sua realizzazione è stata spinta da una serie di contingenze esterne, più che dalla naturale evoluzione dei contatti ecumenici. La crisi ucraina dei due anni precedenti imponeva ai due capi una chiarificazione, per evitare degenerazioni ulteriori; l’offensiva russa in Siria contro il terrorismo islamico aveva rimesso in discussione equilibri complessi della politica internazionale, chiamando in causa anche le gerarchie ecclesiastiche di entrambe le parti in difesa della condizione dei cristiani di quella regione; e infine, l’imminenza del Grande Concilio Ortodosso di Creta, in previsione per giugno 2016, suggeriva al patriarca di Mosca l’importanza di non apparire l’unico rappresentante ortodosso a non avere un dialogo con Roma.

La cornice dell’incontro stesso è apparsa decisamente sorprendente, simbolica ma anche piuttosto surreale. L’aeroporto dell’Avana, tappa di passaggio dei due “apostoli volanti”, è intitolato al poeta e filosofo José Martí, fondatore del partito rivoluzionario cubano e autore della famosa canzone Guantanamera. Con i suoi vivaci colori rossoblù ha fatto da sfondo e da contrasto a un incontro tra i massimi esponenti del ritualismo ieratico mondiale, le due “Chiese tradizionali” sull’isola della trasgressione. L’atmosfera paradossale era peraltro accentuata dall’assoluta sterilizzazione dell’area, in cui non vi era traccia di popolo: una Cuba senza cubani, un aeroporto senza passeggeri: solo politici, alti prelati e giornalisti, una scenografia di sospensione dalla realtà. Più che sosta ai Caraibi, paradiso dei turisti, era una tappa al di fuori del tempo e dello spazio, un’inserzione della storia nel paradiso eterno dell’aldilà. 

Se l’esterno appariva come un non-luogo, un simbolo evacuato, la scenografia degli interni si è mostrata al contrario in tutta la sua inconfondibile prosaicità: come in molti edifici della Russia e dei suoi paesi ex satelliti, la riverniciatura esterna non poteva evitare il senso di angoscia degli angusti spazi interni, cifra architettonica ed esistenziale del socialismo reale. La piccola sala dell’incontro dei due Padri della Chiesa ha conservato le proporzioni, i colori e certamente il profumo delle cosiddette khrusciovke, le case sovietiche del dopoguerra che ottimizzavano lo spazio socialista, con i suoi soffitti alti meno di tre metri e i suoi materiali scadenti e quasi trasparenti, che lasciano passare i sospiri del vicino e impediscono ogni privacy. Quando sulla mezza stanza dove attendevano in due file ordinate gli astanti, si è aperto il divisorio della metà da cui dovevano entrare solennemente i due grandi protagonisti, per un attimo è sembrato di vedere le verdi uniformi dell’Armata Rossa, che scortavano ospiti poco graditi dei bei tempi della Guerra fredda. E infatti a scortare le due Santità, convenute in difesa dei cristiani perseguitati, c’era un grande reduce di quei tempi tragici, quel Raúl Castro fino al giorno prima grande persecutore di cristiani e dissidenti, e quindi un po’ neofita di Francesco, e un po’ agente operativo di Putin e Kirill. Castro era il padrone di casa, ma sembrava piuttosto il maggiordomo del Patriarca russo, cui l’isola era stata provvisoriamente affittata. Il capolavoro della diplomazia ortodossa ha fatto quindi in modo che fosse Francesco, il primate sudamericano, ad andare da Kirill, che lo attendeva a casa sua come se L’Avana fosse la sua residenza estiva, una dacia sul Mar Nero delle Bermuda.

 

Comunque il Papa e il Patriarca, sul traballante tavolino offerto dai Castro, hanno firmato un accordo di ambizioni enormi, ben al di là della difesa dei cristiani del medio oriente, motivo dell’incontro in realtà quasi trascurato negli spontanei discorsi a braccio dei due. Il testo comune in trenta punti parlava sì della difesa delle comunità perseguitate, ma anche della stessa civiltà umana dal terrorismo, per cui ci vogliono azioni coordinate fra le potenze coinvolte (la posizione più volte ripetuta dal presidente Putin riguardo alla Siria), e della natura umana dagli attacchi contro la famiglia e la vita, con quella franchezza che il Patriarca Kirill ha sempre avuto e richiesto agli altri leader cristiani, e che Francesco aveva un po’ sfumato.

Molto cari a Kirill sono apparsi anche gli accenni all’integrazione dei popoli e dei migranti, in una soluzione che rifiuti il multiculturalismo e difenda l’identità cristiana dei paesi europei. Nel documento c’è però anche la giustizia, la scelta dei poveri richiamata da Francesco, pur senza accenni alla salvaguardia del creato, tema comune con Bartolomeo di Costantinopoli, ma non tanto con Kirill, che vedeva l’ecologia piuttosto con sospetto, come scusa per far passare altre riforme anticristiane. Sul conflitto in Ucraina si ribadiva con forza la condanna dell’uniatismo, condizione da sempre posta dai russi per qualunque forma di dialogo, e si richiamavano i cristiani ucraini a smettere di litigare, escludendo qualunque accusa di ingerenza esterna. Non mancavano indicazioni di tipo ecumenico-teologico, anche qui piuttosto sbilanciate sulla prospettiva russa: si parlava della necessità di esprimere correttamente la fede trinitaria – ancora e sempre i bizantinismi del Filioque – ma non si accennava alle diverse interpretazioni del Primato nella Chiesa, che da dieci anni si cercava di inserire nel dialogo teologico, ma che i russi non volevano nemmeno sentire.

 

Il Papa stesso, commentando l’incontro e il testo sottoscritto il giorno dopo con i giornalisti, si era affrettato a ridurne la portata, derubricandolo a evento di natura pastorale: “Con Kirill è stata una conversazione di fratelli. Abbiamo parlato con tutta franchezza. Sono rimasto felice”, e ha aggiunto sulla dichiarazione congiunta: “Non è una dichiarazione politica, sociologica, è una dichiarazione pastorale”. Le reazioni entusiaste dell’opinione pubblica nel mondo cattolico, del resto, non sono state per nulla condivise dai greco-cattolici dell’Ucraina, a cominciare dal loro massimo rappresentante, l’arcivescovo maggiore di Kyiv Svjatoslav Sevchuk, che ha invitato a “non esagerare l’importanza della Dichiarazione congiunta nella vita della Chiesa”. Commentando l’incontro di Francesco con Kirill, il primate dei greco-cattolici “ha lodato l’impegno per l’ecumenismo del Papa, ma non ha mancato di sottolineare che riteneva il punto di vista sull’Ucraina sbilanciato sulla posizione russa”. Il Papa stesso, ricordando la sua antica amicizia con l’arcivescovo Svjatoslav, conosciuto a Buenos Aires, ha ammesso di essere rimasto colpito dai toni duri del capo degli uniati, riconoscendo peraltro che sulla questione dell’Ucraina “il documento è discutibile… l’Ucraina è in un momento di guerra, di sofferenza, con tante interpretazioni. Ognuno ha la sua idea su questa guerra… ma chi l’ha cominciata, come si fa?”. 

Nonostante tutte le incertezze per la situazione di “guerra ibrida” in Ucraina, il Papa non perdeva le speranze di mantenere un rapporto costruttivo con la Russia, con tutta questa grande storia di rapporti nel suo stesso pontificato. A metà febbraio 2022 si era concluso un accordo per un grande convegno a Roma, al Pontificio istituto orientale, che si doveva tenere a marzo in occasione dei 200 anni dalla nascita di Dostoevskij, incontro rimandato di un anno a causa del Covid, e che prevedeva l’intervento di una quindicina di specialisti dalla Russia, con il finanziamento del colosso petrolifero russo Gazprom. Al convegno era previsto un intervento dello stesso Papa Francesco, grande ammiratore del massimo scrittore slavofilo russo, ma tutto saltò per l’inizio dell’invasione russa in Ucraina. Nello stesso anno il Papa prevedeva un nuovo incontro con il patriarca Kirill, forse alla basilica di San Nicola di Bari, ma anche questo si dovette annullare, e fu sostituito da un drammatico colloquio a distanza un mese dopo l’inizio della “operazione militare speciale”, con il Papa che implorava su internet di interrompere la guerra, attorniato dai rappresentanti delle altre istituzioni vaticane che avrebbero dovuto partecipare al secondo storico incontro con il patriarca di Mosca.

 

A maggio del 2022 Papa Bergoglio rilasciò un’intervista al Corriere della Sera, in cui riferiva di “aver parlato per 40 minuti con il patriarca Kirill, dicendogli che non siamo chierici di stato”, un’espressione che offese profondamente il Patriarca. Il pontefice disse che aveva più volte insistito per recarsi a Mosca, ormai non per proclamare la riunione di cattolici e ortodossi, ma per scongiurare la fine della guerra, e si era perfino recato senza protocollo alla sede dell’ambasciatore russo presso la Santa Sede in via della Conciliazione, incontrando il diplomatico Aleksandr Avdeev, ex ministro russo della cultura, con cui i rapporti erano rimasti sempre molto cordiali, chiedendo “per favore fermatevi!”. Il segretario di Stato vaticano, il cardinale Parolin, aveva trasmesso a Putin un messaggio di Francesco, che era pronto ad andare a Mosca a qualunque condizione, senza però avere alcuna risposta. Per lenire l’aggressività del presidente russo, Francesco aveva perfino condannato “l’abbaiare della Nato alle porte della Russia” che aveva suscitato le ire di Putin, “un’ira che non so dire quanto sia stata provocata, ma facilitata forse sì”.

 

Da allora Francesco non ha fatto altro che invocare la pace, pur cercando sempre di difendere la “martoriata Ucraina”. A settembre 2022 si era creata una nuova opportunità di incontrare il Patriarca di Mosca all’incontro dei capi di tutte le religioni in Kazakistan, ma all’ultimo momento Kirill si sottrasse, inviando il giovane metropolita Antonij (Sevrjuk), responsabile dei rapporti esterni del patriarcato, che è sempre rimasto in contatto con Francesco anche nei successivi anni della guerra. Il Vaticano ha tentato varie strade di mediazione, soprattutto con le missioni umanitarie del cardinale di Bologna Matteo Maria Zuppi, fedelissimo di Bergoglio e uno dei suoi possibili successori, ma non si è riusciti ad andare oltre qualche restituzione di bambini deportati e di prigionieri di guerra. Fino all’ultimo il Pontefice ha invocato la pace, difendendo l’Ucraina, ma senza mai condannare direttamente la Russia per non rompere le relazioni con Mosca, nella speranza di una riconciliazione futura.


(2. Fine. La prima parte di questo articolo è stata pubblicata sul Foglio di ieri)

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