(Ansa)

i ritratti

Nove leader e il funerale di Papa Francesco

Micol Flammini e Simone Canettieri

I soddisfatti e i delusi, gli accerchiati e gli infastiditi. Come si è mossa la diplomazia nel giorno delle esequie del Papa e cosa cambia per il mondo tra foto iconiche, grandi assenti, comparse e vanità della capitale 

Era già accaduto in passato che il funerale di un Papa finisse per mettere l’uno accanto all’altro due nemici acerrimi, come successe nel 2005, durante le esequie di Giovanni Paolo II, quando per rispettare il protocollo e la disposizione in ordine alfabetico, si lasciò che i presidenti israeliano Moshe Katsav e iraniano Khatami finissero seduti vicini e si strinsero pure la mano. Non era però mai accaduto che dentro la basilica di San Pietro si creassero le condizioni per un negoziato politico, a due passi dal feretro del Papa che i due protagonisti di questa vicenda, il presidente americano Donald Trump e l’ucraino Volodymyr Zelensky, avevano omaggiato poco prima. Attorno al funerale ha preso forma una diplomazia forsennata, che ha avuto i suoi protagonisti in capi di stato e di governo, in ministri e amministratori locali. Il grande palco del funerale del Pontefice ha reso possibile scambi che erano stati rimandati troppo a lungo, riavvicinamenti in cui nessuno sperava più, inizi di negoziati che parevano ormai impossibili. Alcuni leader sono rimasti delusi, altri si sono dovuti fare da parte. Ecco i protagonisti: i redenti, gli speranzosi, gli insoddisfatti, gli invidiosi, i determinanti, le comparse.


Trump, l’accerchiato 


Il capo della Casa Bianca ha trascorso a Roma quattordici ore, era il più corteggiato di tutti i leader, ognuno avrebbe voluto avere almeno quindici minuti per parlare con lui: dai dazi alle guerre, la sua presidenza sta mettendo sottosopra tutte le alleanze, parlare con Trump in privato, spesso, è il primo passo per cercare di allentare le tensioni. Invece il capo della Casa Bianca ha stretto le mani a molti, ma parlato davvero con pochi: doveva andare a giocare a golf nel New Jersey per il compleanno della moglie Melania, non poteva trattenersi a Roma troppo a lungo. Attorno a Trump era stata cucita tutta la rete della diplomazia. I leader europei volevano che trovasse il tempo di sedersi per parlare con Zelensky, di farsi spiegare cosa succede in Ucraina e perché un piano di pace concordato soltanto con Mosca metterebbe a soqquadro tutto l’ordine internazionale, oltre a distruggere Kyiv, istituzionalmente e militarmente. L’incontro fra Trump e Zelensky era stato organizzato a Villa Taverna, nella residenza dell’Ambasciatore americano a Roma, ma agli ucraini il contesto ricordava  troppo lo Studio ovale. Sembrava potesse saltare tutto, invece alla fine Trump si è concesso  seduto su una sedia di velluto rosso, trenta minuti prima che il funerale iniziasse, ha parlato con il presidente ucraino, l’ha ascoltato. E’ ripartito per gli Stati Uniti immediatamente dopo la funzione, e il suo primo post sul suo social Truth, stile a parte, sembrava quello di un leader completamente cambiato. Ha scritto: “Putin non aveva alcun motivo per lanciare missili sui civili…mi sta solo prendendo in giro”. Un altro Trump, un altro mondo. Sono le prime parole dure contro il capo del Cremlino pronunciate dal presidente americano. I giornali americani consigliano una precauzione: meglio rimanere un po’ scettici.   


Zelensky da applausi


 Il presidente ucraino è stato tra gli ultimi a raggiungere Roma. Era vestito in nero, come da indicazioni del protocollo Vaticano che tutti hanno rispettato tranne Trump, in abito blu. Per Zelensky era importante essere tra i leader a Roma, ma soprattutto il viaggio aveva uno scopo: rivedere il capo della Casa Bianca dopo il disastro dello Studio ovale per  raddrizzare mesi di post al vetriolo, di accuse costruite con l’aiuto della propaganda di Mosca. Zelensky ha tentato il tutto per tutto, doveva vedere Trump a ogni costo, prima che l’americano ritenesse chiuso il suo accordo con Putin con  condizioni molto punitive e irriguardose per Kyiv. Il presidente ucraino è partito con la paura di un altro trattamento da Studio ovale, con la rabbia da tenere a freno nei riguardi di un’America che pianifica grandi affari con il Cremlino a spese dell’Ucraina  e con una proposta di piano di pace in tasca. Poteva andare tutto malissimo, fino all’ultimo non sapeva se avrebbe incontrato o meno Trump. Invece gli si è seduto davanti, da solo, bilanciando richieste, gratitudine (“say thank you!”, dì grazie, gli aveva urlato il vicepresidente americano Vance a febbraio) e spirito propositivo. Sperava in un secondo incontro dopo il funerale, si è accontentato dei quindici minuti con la foto storica scattata dalla sua responsabile del protocollo. La tensione gli si vedeva sul viso anche quando è spuntato sul sagrato e la piazza a San Pietro lo ha accolto con un applauso: unico leader a meritare applausi, quelli che sono venuti dopo erano tutti per Francesco, in memoriam. Dopo Giorgia Meloni, Zelensky è stato il leader che ha avuto più incontri nella giornata di sabato. 

Giorgia, la papessa della destra senza foto


La padrona di casa, non è stata la leader della fotocrazia papale. Questo senza dubbio. La premier Giorgia Meloni manca nello scatto “storico” nella basilica di San Pietro con i volenterosi Keir ed Emmanuel, l’imprevedibile Donald e l’indomito Volodymyr. “Non era un vertice, la presidente si trovava sul sagrato ad accogliere le altre delegazioni”, diranno da Palazzo Chigi, masticando amaro per l’ennesimo dispetto (forse) dell’Eliseo. Non c’è intelligenza artificiale che tenga. Meloni è fuori dalle inquadrature, lontana, anche quando davanti alla bara di Francesco von der Leyen e Trump si stringono la mano: clic, altra istantanea storica, questa volta tra Unione europea e America in epoca di dazi da trattare, senza “Giorgia la donna ponte”. Come quell’aforisma? Puoi guardare una foto per una settimana e non pensarci mai più; puoi anche guardare una foto per un secondo e pensarci per tutta la vita. Eppure la vigilia di questo grande evento, Meloni l’ha vissuta e cavalcata da protagonista nel bene o nelle polemiche: cinque giorni di lutto nazionale, il consiglio nonsense alla “sobrietà” nel festeggiare il 25 aprile, il ricordo in Parlamento del pontefice, le interviste ai tg sul suo rapporto personale con questo Papa degli ultimi e dei migranti. Si dirà che per la premier ha prevalso la spiritualità: non credeva in un vertice su dazi Donald-Ursula – per evitare l’effetto mercanti nel Tempio – si è detta felice del faccia a faccia tra Trump e Zelensky, rivendicandone la preparazione, a foto ormai scattata senza di lei. Chissà. Resta l’esclusione dalle immagini segnanti: chi conosce Meloni sa quanto sia puntigliosa e attenta alla comunicazione che ha sempre curato in maniera maniacale e personale. Se la sarà davvero presa? Nel dubbio resta l’ultimo consiglio che, ha rivelato la premier alla Camera, le consegnò Francesco: ridi.


Macron il mezzano e la sedia scomparsa


E’ stato il presidente francese Emmanuel Macron ad accompagnare Trump e Zelensky verso il loro incontro. Sono mesi che il capo dell’Eliseo tenta di convincere il presidente americano che una pace che non sia una resa alle richieste di Mosca è possibile. Per Macron è importante mostrare a Trump che Zelensky e gli europei hanno un’alternativa, sono pronti a prendersi le loro responsabilità in fatto di sicurezza e con questo spirito è stato l’animatore della coalizione dei volenterosi per la difesa di Kyiv. Il rapporto tra il francese e l’americano è buono. Macron riuscì a conquistare Trump con una cena in cima alla Tour Eiffel, ma al capo della Casa Bianca piace anche il fatto che Macron sia a capo di una potenza nucleare, di un paese grande e nonostante le differenze sembra che i due abbiano trovato il modo di capirsi. Eppure sabato, forse Macron avrebbe voluto partecipare all’incontro fra il capo della Casa Bianca e Zelensky: le sedie in velluto rosso all'inizio erano tre, una è scomparsa e i pettegolezzi dicono che  era proprio per Macron, allontanato da Trump che voleva invece un colloquio a due.  Non ci sono conferme, in ogni caso, meglio così: con Macron nel mezzo, anche la potenza della foto ne avrebbe risentito.


Starmer, lo schivo che lascia il segno


Non scalpita per farsi vedere, il premier britannico. Ma sa sempre come contare. Non ci sa fare come Macron, ma sa sempre come comportarsi. Anche sabato Starmer è stato consapevole del suo ruolo e del suo compito: nessuno come lui si sta spendendo con gli Stati Uniti affinché accettino che il piano per far finire il conflitto in Ucraina preveda la presenza di un contingente europeo che possa disporre della fornitura di intelligence americana. Sarebbe stato proprio Starmer a suggerire che un incontro con Trump senza Vance e altri della sua Amministrazione sarebbe stato più congeniale a Zelensky per spiegarsi: preso da solo, Trump, secondo vari leader, è più ragionevole. Le pressioni diplomatiche di Starmer sembrano discrete, ma è sempre al centro di tutto, anche della foto che lo ritrae assieme a Trump, Zelensky e Macron dentro a San Pietro, in cui i quattro leader si abbracciano e parlottano mandando un segnale: il futuro dell’Europa si decide qui. Nell’immagine gli assenti si vedono più dei presenti. Starmer ha incontrato il presidente ucraino dopo il funerale, si sono visti a Villa Wolkonsky dopo che Zelensky aveva avuto un incontro con Macron nel giardino dell’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede e con Giorgia Meloni a Palazzo Chigi. Starmer ha preso un Regno Unito che si era distinto per il sostegno a Kyiv e, adesso che l’Ue e l’Ucraina fanno difficoltà a dialogare con Washington, ne sta facendo un baluardo della futura difesa dell’Europa. E non c’è Brexit che tenga. 


Il sindaco e la mano de Dios


Riposta la chitarra, il sindaco di Roma Roberto Gualtieri agita l’aspersorio: che soave melodia. “Roma ha superato la prova”, certifica il Messaggero a proposito della gestione del santo funerale, susseguito ieri dal Giubileo degli adolescenti, altro evento di massa scivolato senza intoppi in una città dove il problema è semmai l’ordinario, ma mai lo straordinario, proprio come cantava Dalla a proposito dell’impresa eccezionale. E quindi il primo cittadino della capitale si gode questo spicchio di paradiso: popolare, intervistatissimo, istituzionale e mai polemico. Gualtieri nota con ironia, tra sé e sé, che la destra dice “grazie Italia” e non “grazie Roma” per come sia filato liscio il funerale del Papa, nel frattempo convoca conferenze stampa per rivendicare risultati. Sa che questi occhi del mondo sulla città eterna sono piccole perle in un collier quando fra due anni si voterà per il Campidoglio. Egli, con la sua faccia da cardinale, ci sarà, per il bis. La destra, invece, brancola ancora nel buio, nella speranza intanto di aver cambiato la regola dei ballottaggi. Ai funerali di Francesco, Gualtieri era seduto fra il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti (ex collega di Via XX Settembre) e il governatore del Lazio Francesco Rocca (non proprio fosforescente). Con Giorgetti pare abbia parlato di scenari di economia globale e anche, in maniera positiva, dei Btp italiani. Gualtieri dice di aver ricevuto tanti complimenti dal senatore Pierferdinando Casini in versione sponsor della capitale. Le teste d’uovo del sindaco sono sicuri che gli effetti Giubileo, morte del Papa e futuro conclave peseranno nei sondaggi, in attesa della fumata bianca del candidato di Fratelli d’Italia al Campidoglio. “Roma senza papa” è un romanzo di Guido Morselli da leggere. “Roma senza candidato a destra” è la cronachetta di questo periodo al di là del Tevere.

La difficoltà di chiamarsi Ursula


“Valutiamo un bilaterale con gli Usa”. E anche: “Pronti a un faccia a faccia a con Trump”. Per tutta la scorsa settimana non c’è stato un punto stampa a Bruxelles in cui i portavoce della presidente della Commissione europea non abbiano rilanciato e fatto pressioni con dichiarazioni rimaste agli atti. Volevano un incontro con Trump per parlare di dazi. Come, di converso, si è registrato il sottile fastidio di Palazzo Chigi a questa ipotesi nel giorno delle esequie di Francesco. Troppi rischi dettati dall’improvvisazione, troppe dinamiche impazzite. Alla fine Ursula e Donald si sono salutati e hanno avuto una breve conversazione, dandosi appuntamento al vertice Nato dell’Aja, in giugno, o a Bruxelles o forse alla Casa Bianca. Di sicuro – parrebbe, ma chissà – non a Roma. Alla fine della fiera, alla bis presidente della Commissione Ue è riuscito un altro bilaterale più burocratico: l’incontro nel pomeriggio con Zelensky, nel solco di un rapporto solido che va avanti da tempo. Stessa cosa accaduta a Meloni. Non a caso nemmeno Ursula è entrata nella foto delle foto di San Pietro. Le due si sono sentite al telefono anche ieri.


Viktor e Javier per nulla marziani a Roma


Orbán e Milei: gli amici di Meloni che con Trump sognano di cambiare la destra nel mondo, una Vita nova (Giorgia, io vorrei tu Donald e io fossimo presi per incantamento e messi in un vasel...).  
Il premier ungherese è stato il primo leader a entrare a Palazzo Chigi venerdì; il presidente argentino, in compagnia della potentissima sorella Karina, ha avuto modo di pranzare con Meloni, in Via Veneto, sabato dopo il funerale (senza la sorella d’Italia, Arianna). Quando Orbán punta i piedi in Consiglio europeo l’unica che “prova” a farlo ragionare sul consueto veto è Meloni: i due hanno radici valoriali molto simili. Milei è l’alieno, invece, una motosega contro il wokismo e un’altra contro  l’assistenzialismo statale in tutte le sue forme. Sulla prima massima intesa con la premier, sulla seconda, beh insomma, si vedrà. Amen.