
il racconto
Papa Francesco e l'eredità di un funerale
Il mondo in piazza per il Papa, le code per una preghiera o un selfie davanti alla sua tomba. La solenne celebrazione di sabato ha segnato la fine di un’èra o l’inizio di una nuova, nel nome di Francesco? A dirlo sarà il Conclave ormai imminente
La fine di un’èra o l’inizio di una nuova, nel nome di Francesco. E’ questo il dubbio che lascia il funerale del Papa preso alla fine del mondo, quello che non ha voluto ori e insegne principesche e poi, ironia della sorte, s’è ritrovato a sfilare da morto in corteo per le vie di Roma com’era toccato per ultimo prima di lui a Pio XII. Il sagrato petrino ha abbracciato l’intera Chiesa, che è cattolica e quindi universale: c’erano popoli presi da ogni parte del globo, si sentivano parlare lingue sconosciute, tanto che il gesto della pace prima della comunione pareva la rappresentazione in terra della mitica torre di Babele. Non c’è stata umiltà né sobrietà nei funerali del Papa, come in un superfluo eccesso melenso si legge e si sente dappertutto. Non è stato il funerale di un sovrano né quello di un pastore: è stato il funerale di un Papa. Come tutti funerali dei Papi prima di Francesco. La liturgia antica in latino, i cori e le suppliche in greco dei patriarchi orientali, le litanie con i santi chiamati a pregare per l’anima del defunto.
L’acqua benedetta e l’incenso. Simboli che non sono casuali, ma rimandano a precisi significati, decisivi nel passaggio “da questo mondo al Padre”, come il cardinale decano Giovanni Battista Re ha ricordato all’inizio della sua omelia. Che non è stata paragonabile a quella di vent’anni fa, quando Joseph Ratzinger tracciò un bilancio spirituale e teologico della vita di Giovanni Paolo II. Sono cambiati i tempi, Ratzinger aveva lavorato a stretto contatto con Karol Wojtyla e, soprattutto, era un teologo. C’era da infondere speranza e pure coraggio ai milioni di fedeli giunti a Roma, sotto choc per aver perso il “loro” Papa, per molti il primo di tutta la vita. Il cardinale Re ha tratteggiato un profilo biografico, mettendo in risalto gli aspetti più significativi dell’opera di Francesco, non tralasciando nulla, neppure quando ha sottolineato la messa celebrata al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, facendo scattare un applauso dal sagrato. Più che l’analisi geopolitica della stagione bergogliana – ci sarà tempo – Re è tornato alle origini, al documento programmatico del pontificato, la Evangelii gaudium, risalente al novembre del 2013. Un testo lunghissimo che però è una pietra miliare: lì dentro c’è tutto, anche le contraddizioni, che si sarebbero viste nei dodici anni seguenti. La sintesi delle decine di pagine dell’esortazione è in una espressione divenuta celebre, usata sovente anche come slogan per dire tutto e il suo contrario: la Chiesa come ospedale da campo. Aperta a tutti, capace di perdonare sempre tutto a tutti. La Chiesa chiamata a sanare le ferite, ché serve per i malati e non per i sani, come da dettato evangelico. E’ su questo punto che, al di là delle schermaglie sul destino del cardinale Becciu, i porporati rifletteranno in questi giorni che anticipano il Conclave: come tradurre il motto bergogliano in una Chiesa dove Francesco non ci sarà più. Perché sull’ospedale da campo e la sua interpretazione in questi anni la Chiesa s’è divisa, fra chi era favorevole ad allargare il più possibile le porte dell’ospedale e chi, invece, pensava che qualche paletto andasse posto. E’ questione ecclesiale, pastorale e pure dottrinale. Il cardinale decano ha parlato di Francesco come grande evangelizzatore che non ha avuto paura di rischiare anche quando i pericoli erano evidenti e le minacce pure. Si pensi solo all’apertura della Porta santa a Bangui, nel 2015, mentre i servizi segreti di mezzo mondo gli dicevano che era meglio soprassedere. O al viaggio in Iraq del 2021, che resterà nella storia: “Un balsamo sulle ferite aperte della popolazione irachena, che tanto aveva sofferto per l’opera disumana dell’Isis”.
Ridurre però il pontificato di Francesco al suo impegno politico, specie nei contesti di guerra, sarebbe errato. E’ in quel primato dell’evangelizzazione che va ricercata la bussola per comprendere lui e la sua visione di Chiesa. In piazza, sabato mattina, sotto un sole tardo primaverile, era rappresentato il mondo. Comitive di anziani pellegrini giunti a Roma per attraversare la Porta santa, decine di migliaia di ragazzini calati su Roma per il Giubileo degli adolescenti. E si sono ritrovati tutti insieme a pregare davanti alla bara del Papa. I primi con i cappellini del tour organizzato e le guide della Capitale in tasca, gli altri con le magliette blu su cui si vedeva il volto di Carlo Acutis, il beato la cui canonizzazione era prevista per ieri. E ieri mattina, alle 10.30, erano tutti di nuovo lì, sul sagrato: per Acutis e per Francesco, in una ideale e non programmata comunione di spirito, mentre il cardinale Pietro Parolin presiedeva il secondo dei novendiali, le messe di suffragio per il Pontefice defunto.
Santi e pellegrinaggi, ma prima di tutto la condivisione di una fede: attorno all’obelisco, mentre il diacono intonava il Vangelo, si vedevano pattuglie di famiglie messicane, con tanto di bandiera orgogliosamente stretta fra le mani. Poco oltre, giovani canadesi con un ombrellino che rimandava alla propria nazionalità (la foglia d’acero rossa su campo bianco), gruppi di statunitensi con Rosario in una mano e snack nell’altra, suore d’ogni età e preti con la fronte imperlata di sudore che a memoria rispondevano al salmista e offrivano liquirizie Haribo a gente mai vista prima. Sacerdoti in jeans e in talare, camici semplici e ricercati, l’alfa e l’omega. La Chiesa è sì divisa (lo è sempre stata, basterebbe un ripasso anche rapido degli Atti degli apostoli), ci sono “gli indietristi” e i “progressisti”, quelli che vorrebbero rivoluzioni e quelli che sognano le restaurazioni. Ma poi, davanti all’altare, si scambiano tutti la pace. Si parla già di “miracolo” di Francesco, un po’ per aver propiziato dall’Alto la conversazione fra Trump e Zelensky, un po’ per aver ricacciato almeno per qualche tempo le discussioni su spaccature e guerre in Sistina: troppi film, troppi libri, troppe leggende. Non sarà lo Spirito santo a decidere il Papa – Ratzinger dixit – ma di sicuro una controllatina in cappella la darà. Anche senza volteggiar di colombe pronte a posarsi sul capo dell’eligendo.
“Il dolore per la sua dipartita, il senso di tristezza che ci assale, il turbamento che avvertiamo nel cuore, la sensazione di smarrimento: stiamo vivendo tutto questo, come gli apostoli addolorati per la morte di Gesù”, ha detto Parolin nell’omelia di ieri. Ed è vero, la tristezza era visibile, anche se composta, “adulta”: la consapevolezza che un Papa è morto ma la Chiesa vive. Vent’anni fa si respirava un clima da fine del mondo, come dimostrano le foto di quanti erano presenti a Roma in quei giorni d’inizio aprile: sguardi vuoti, volti segnati dalle lacrime. Un cocktail di tensione e sentimenti che esplose nell’invocazione al santo subito. Nulla di tutto questo s’è visto oggi. Qualche striscione c’era, quello delle Scholas che salutava “il padre, il maestro, il poeta” e poco altro. Eccola la vera sobrietà, quella di una Chiesa che pregava per il suo pastore salito al Cielo, certa – e lo ha rimarcato il cardinale Parolin – della risurrezione. E’ il vantaggio dei cristiani, la marcia in più: “La gioia pasquale, che ci sostiene nell’ora della prova e della tristezza, oggi è qualcosa che si può quasi toccare in questa piazza; la si vede impressa soprattutto nei vostri volti, cari ragazzi e adolescenti che siete venuti da tutto il mondo a celebrare il Giubileo. Venite da tante parti: da tutte le Diocesi d’Italia, dall’Europa, dagli Stati Uniti all’America latina, dall’Africa all’Asia, dagli Emirati Arabi … con voi è realmente presente il mondo intero!”.
E poi il transito verso Santa Maria Maggiore, la meta terrena finale. Sei chilometri che hanno attraversato Roma, la bara posta su una papamobile riadattata, il corteo di auto che dal Vaticano accompagnava cardinali e vescovi chiamati a presenziare alla cerimonia di tumulazione. Altre migliaia di persone ai bordi della strada, forse centocinquantamila. Lanci di fiori, applausi, qualche “Viva il Papa!”. Fino all’arrivo davanti alla basilica, quando l’unico suono che si sentiva era quello del campanone che suonava a morto. Altri passi e la sosta, breve, davanti all’icona della Salus Populi Romani, che Francesco visitava sempre prima e dopo ogni viaggio apostolico. Quindi la sepoltura, in forma privata. Ieri mattina, già all’alba, la coda per visitare la tomba era lunghissima e alle dieci dall’altare è stato intimato di uscire: ragioni di sicurezza. Troppa gente, armata di cellulare per fotografare quel luogo e magari – anche qui – farsi un selfie. E’ un po’ come alle mostre, quando ci si accalca per fotografare (male) con il proprio smartphone quadri che si trovano ovunque su internet o impressi sulle cartoline in vendita in ogni negozio museale. Nel pomeriggio vi si è recato il Collegio cardinalizio, per un momento di preghiera seguito dai Vespri.
Da oggi si fa sul serio: il lutto continua ma c’è da pensare al “timoniere”. Qualche eminenza fa sapere che la scelta è urgente, che bisogna fare presto. Altri preferirebbero più calma e riflessione, senza clausure anticipate o forzate nelle tempistiche. La data del Conclave sarà resa nota a breve. Giornali, tv e radio sciorinano ogni giorno elenchi di papabili composti da dieci, quindici nomi: avranno così la quasi certezza di indovinare. Ma una lista così lunga fa capire che la successione di Francesco è qualcosa di complicato o, quantomeno, di delicato. Il cardinale Reinhard Marx, per esempio, mai restio a dare indicazioni più o meno profetiche sul destino della Chiesa o a minacciare rivolte e rivoluzioni (lo fece al Sinodo sulla famiglia), ha detto già che il Conclave durerà poco (il poco andrebbe però quantificato) ma che servirà qualcuno di “comunicativo”. Bisogna vedere se i 133-134 colleghi elettori (salvo ulteriori defezioni dopo quella del cardinale Antonio Cañizares Llovera) avranno le stesse idee circa le priorità e l’identikit. C’è almeno una settimana di tempo per capirlo.