La guerra di Bruxelles al vino italiano: dopo il Tocai tocca al Prosecco
L'Australia continua a chiamare un suo spumante con lo stesso nome del vino frizzante veneto. L'Ue continua a non intervenire. Con lo Champagne francese andò diversamente
Prosecco è nome proprio di paese, prima di tutto, poco più di mille anime nelle alture che da Trieste si protendono verso il Carso, di vino, ma solo dal Cinquecento. Dalla zona giuliana, dove è originario il vitigno, i veneziani lo avevano impiantato in Istria e nel trevigiano, dove ha trovato il terreno ideale, quello del semicerchio collinare che unisce Conegliano a Valdobbiadene. Lì i lunghi grappoli ad acini sferici della glera – nome seicentesco caduto in disuso nell'Ottocento per il più utilizzato prosecco, venne ripreso ufficialmente nel 2009 per evitare di confondere il vitigno con il vino –, hanno iniziato a prosperare, a essere utilizzati per realizzare un vino sempre migliore, raffinato anno dopo anno, purificato dal deposito tipico che occupava il fondo delle bottiglie dei contadini fino agli anni Ottanta, curato nella bollicina, esportato e bevuto in tutto il mondo.
Il prosecco ha una terra di origine, il Carso, una terra d'elezione, le colline del Docg, una di coltivazione, ormai gran parte del Veneto e del Friuli, Doc, un mercato enorme. E una serie di tentativi di emulazione, riproduzione, contraffazione. Anzi, secondo l'Ispettorato centrale repressione frodi del ministero delle Politiche agricole è il prodotto italiano più contraffatto. In Germania, Paesi Bassi, Regno Unito, Austria, Repubblica Ceca, Polonia, Romania, Belgio, Irlanda, Portogallo, Grecia e Danimarca si possono trovare vini frizzanti che non sono prosecco venduti illegalmente come prosecco. In America tre mesi fa sono stati sequestrati diecimila litri di vino prodotto in Ecuador con impresso sull'etichetta la dicitura "Prosecco woc".
Prosecco è Italia, nord est agricolo. Eppure dall'altra parte del mondo c'è a chi non interessa poi molto, anzi reclamano il legittimo utilizzo del nome. E questa in Australia è una storia già vista.
Già nel 2007, laggiù, in quello che un tempo fu il più grande penitenziario del Regno Unito, iniziò la battaglia francese contro gli australiani che utilizzavano il nome Champagne per denominare vini che Champagne non erano. Nel 2010 l'Ue e Canberra si accordarono affinché sparissero dalle bottiglie australiane i nomi Champagne, Bordeaux, Sherry, Porto ecc. Una "vittoria della legalità, del riconoscimento della territorialità di un prodotto contro lo sfruttamento indiscriminato", dissero esultando da Bruxelles.
L'Europa del "riconoscimento della territorialità" è la stessa che impose all'Italia di eliminare dalle bottiglie di bianco friulano il nome "Tocai" sostituendolo con un più autoctono "Friulano", per non confonderlo con il vino prodotto nella regione ungherese del Tokaj. Ma è anche la stessa un po' più accondiscendente con l'Australia, che ha deciso di battersi in favore del diritto di "utilizzare il termine prosecco per il vino prodotto in territorio australiano", come ribadito da Tony Battaglene, l'amministratore delegato della Winemakers Federation of Australia.
L'Italia aveva già chiesto nel 2013 un intervento dell'Unione europea, che a sua volta aveva inoltrato la richiesta al governo australiano, che non era intervenuto. E così dopo quattro anni la situazione non è mutata.
"In passato, gli accordi di libero scambio hanno prodotto benefici all'industria vinicola australiana e noi continuiamo a essere grandi sostenitori di questi accordi. Tuttavia, il successo di questo settore non può prescindere dalla possibilità di utilizzare il nome prosecco", ha detto Battaglene al quotidiano australiano Advertiser. Il mancato utilizzo del nome prosecco infatti costerebbe all'Australia milioni di mancati guadagni e con questa scusa il governo di Canberra ha deciso di non intervenire. Gli stessi che perdono le aziende venete ogni anno a causa dell'utilizzo di una terminologia che dovrebbe essere esclusiva per indicare il vino di queste terre e che prima persero le cantine francesi per le bottiglie di Champagne non francese vendute in Oceania.
Si vede però che le minacce rivolte allora dai francesi all'Ue furono più convincenti delle legittime richieste italiane.