Gualtiero Marchesi era il più grande e lo sapeva
Così la sua nuova cucina ci ha liberati dai maccheroni col montarozzo
La triste notizia mi ha colto a Riccione mentre stavo cercando di ingurgitare una specie di piadina malcotta e lurida, ripiena di salsiccia e cipolle che bastava guardarle per profetizzare una notte insonne: la terribile vecchia cucina. Gualtiero Marchesi era il più grande perché aveva importato nell’Italia delle trattorie per camionisti, e dei ristoranti con i set sale-pepe-stuzzicadenti sul tavolo, l’indispensabile nouvelle cuisine, opportunamente tradotta (non solo linguisticamente, anche culturalmente) come nuova cucina.
Nato in una famiglia di albergatori, però non eclatante, aveva studiato in Svizzera e poi nelle più aggiornate cucine francesi, in particolare dai fratelli Troisgros, per aprire nel 1977 in via Bonvesin de la Riva un ristorante tutto suo e subito stellare: presagio ed epitome della Milano da bere e dei fantastici anni Ottanta. Non fu certo un bambino-prodigio: all’epoca aveva 47 anni, età a cui molti cuochi odierni arrivano già obsoleti.
Era il più grande e ne era fin troppo consapevole.
Una volta lo chiamarono dalla cucina perché in sala una signora aveva osato lamentarsi: la costoletta alla milanese non le sembrava ben cotta. “Signora, sono Gualtiero Marchesi: le mie cotolette non sono ben cotte ma cotte bene”. Perché in Italia per quanto riguarda i tempi di cottura esiste un a.M. e un d.M., avanti e dopo Marchesi: prima di lui le carni venivano carbonizzate e le verdure venivano spappolate, fra l’altro perdendo per strada tutti o quasi tutti i principi nutritivi, mentre dopo di lui qualcuno ha cominciato a capire che le verdure devono essere croccanti e le carni succose.
Io non sono certo un futurista, a me piacciono le tradizioni e la dieta paleolitica, ma chi ancora oggi, a distanza di quarant’anni, critica la nouvelle cuisine dovrebbe essere rispedito al tempo di Aldo Fabrizi e dei maccheroni col montarozzo, delle amatriciane brodose, dei condimenti coprenti, delle salse di piombo, delle macedonie con la frutta sciroppata. La nuova cucina significò attenzione alla qualità e alla quantità, alla stagionalità degli ingredienti e all’estetica dei piatti. Ai camionisti non poteva piacere. L’ho intervistato un paio di volte, ho mangiato da lui sia ad Erbusco, in Franciacorta, dove si era autoesiliato in non casuale concomitanza con Tangentopoli, sia nel successivo Marchesino di piazza della Scala. Insomma l’ho conosciuto nel suo lungo declino ma se i gourmet cominciavano a snobbarlo l’ironia e la cultura erano rimaste intatte: parlava di musica classica, si ispirava all’arte contemporanea, mi citava Eraclito e Kierkegaard a memoria.
Conoscete qualche cuoco televisivo capace di fare altrettanto? Vi prego di segnalarmelo perché, sarà che non guardo la televisione, mi è sfuggito.
Una volta sola, e molto fuori tempo massimo, mangiai il suo riso, oro e zafferano che ripensato oggi è una sintesi di Rinascimento e craxismo, lusso e lussuria, esibizionismo e perfezionismo. Simbolo di un’epoca e di un cuoco il cui voluminoso complesso di superiorità era, mi dispiace per i suoi colleghi, piuttosto giustificato.
Antisemitismo e fornelli