Dalla Carbonara ai carciofi alla giudia: le guerre della cucina romana
Due tra i due piatti più simbolici di questa eterogeneità gastronomica sono ora quasi in contemporanea oggetto di polemiche puriste
Come si fa la vera carbonara? Sono veramente ebraici i carciofi alla giudia? Nata dall’incontro tra latini, sabini e etruschi, poi capitale di un impero multietnico e sede di una chiesa che si definisce “cattolica” e cioè universale, Roma è per eccellenza città di incontri e mescolanze. Soprattutto in cucina, dove vi si incontrano gli apporti di almeno cinque origini diverse. Eppure, due tra i piatti più simbolici di questa eterogeneità gastronomica sono ora quasi in contemporanea oggetto di polemiche puriste. Sia pure di provenienza molto differente.
Uno è, appunto, quel condimento di uova sbattute con formaggio e grasso di maiale, che assieme a amatriciana e gricia è un simbolo di quella componente culinaria che proviene dalla tradizione di quei pastori e contadini delle colline laziali, dalle quali, con lo sviluppo della città dopo l’Unità d’Italia, vennero i più grossi contingenti di dettaglianti dell’alimentazione: sia negozianti, sia e soprattutto ristoratori. Alcuni maligni sostengono che questo tipo di piatti in origine si faceva con gli spaghetti, ma nelle trattorie si imposero i bucatini perché l’aria in essi contenuti faceva sentire sazi i clienti con meno prodotto. Oggi nei ristoranti si usa spesso anche con la pasta corta, che tiene meglio la cottura.
L’altro piatto contestato è quella frittura di carciofi che assieme in generale alla gran parte delle altre fritture in olio di oliva e ai piatti di pesce è un simbolo di quell’altra componente derivante dalla comunità ebraica della capitale. L’olio di oliva, perché la religione impediva di usare i grassi di maiale e di burro a Roma se ne trovava poco. Il pesce, perché il relativo mercato era davanti al ghetto.
Dagli scarti del mattatoio di Testaccio viene poi la terza componente, detta “vaccinara”. In testa al menù, appunto, coda alla vaccinara, pajata e trippa.
Dalla corte pontificia soprattutto del tempo dei Medici la quarta componente. Massimo campione, la porchetta. E dai ministeriali “piemontesi” venuti a Roma dopo Porta Pia viene la quinta: tanto per avere un paio di assaggi, agnolotti e gnocchi di semolino.
Ma quella che nel mondo ha più viaggiato è la componente amatriciana, e al suo interno la variante carbonara, ormai oggetto e spesso vittima di adattamenti infiniti. Tra la versione alle zucchine popolare in Inghilterra, quella al pesce inventata in Spagna, quella al pollo consumata tra Cina e Malaysia, un paio di anni fa fece infuriare l’Italia una ricetta francese apparsa su YouTube con farfalle, tanta cipolla, prezzemolo e la pancetta bollita in acqua con la pasta. Sia per rivalsa contro questo “obbrobrio”, sia a sostegno di Amatrice distrutta dal terremoto il 6 aprile è stato istituito il Carbonara Day: prima edizione nel 2017; seconda nel 2018.
Proprio seguendo le indicazioni del Museo della Amatriciana che si trovava ad Amatrice prima del sisma si insiste che per la vera carbonara la pasta deve essere lunga, il formaggio deve essere pecorino, il grasso di maiale guanciale, e il tutto va abbondantemente cosparso col nero del pepe che darebbe il nome alla pietanza. In realtà, però, lo stesso Museo ammetteva l’uso di pasta corta e parmigiano, pur se come ripiego. Assolutamente vietati erano solo l’accompagnamento di olio, cipolla o aglio, e la sostituzione al guanciale della pancetta. Amatrice, però, ha sempre cercato in questo modo di “annettersi” la carbonara come derivazione di quella più antica pasta alla gricia, condita col solo guanciale. Secondo questa tesi, aggiungendo il pomodoro la gricia diventa amatriciana; aggiungendo l’uovo diventa carbonara.
Non è però detto che sia così. Gran parte degli storici della cucina affermano infatti che in realtà non c’è traccia di questo nome prima degli anni ’40, e molti di loro fanno risalire l’origine proprio alle “egg and bacon” per la colazione che le truppe Alleate si portavano nelle razioni K durante la Seconda Guerra Mondiale. Come ha scritto Marco Guarnaschelli Gotti nella Grande Enciclopedia della Gastronomia “quando Roma venne liberata, la penuria alimentare era estrema, e una delle poche risorse erano le razioni militari, distribuite dalle truppe alleate; di queste facevano parte uova (in polvere) e bacon (pancetta affumicata), che qualche genio ignoto avrebbe avuto l’idea di mescolare condendo la pasta”. Alessandro Marzo Magno in “il genio del gusto Come il mangiare italiano ha conquistato il mondo” cita addirittura il nome del cuoco bolognese Renato Gualandio come colui che nel 1944 avrebbe inventato la ricetta all’Hotel Vienna di Riccione, con materia prima fornita da un generale canadese. Se così è, insomma, la pancetta si potrebbe pure usare. Basta non bollirla in acqua!
Sui carciofi alla giudia, invece, non ci sono dubbi di antichità, visto che sono già citati in ricettari del ‘500. Il guaio, però, e che al rabbinato israeliano sono venuti dubbi sulla loro conformità alle rigide regole di purezza alimentare della “casherut”. Come ha spiegato al giornale Haaretz il capo della divisione importazione del Rabbinato centrale Rabbi Yitzhak Arazi, “il cuore del carciofo è pieno di vermi e non c'è modo di pulirlo. Non può essere casher. Non è la nostra politica, questa è la legge religiosa ebraica”. Non si tratta di spaccare il capello in quattro, ma il carciofo: soluzione proposta per essersi sicuri della pulizia. Con il che, però, addio la preparazione tradizionale.
Di fonte al rischio che l’importazione in Israele venga vietata, e con un gruppo di ebrei milanesi che ha già chiesto l’eliminazione della ricetta dai ristoranti casher, però, il rabbinato romano è sceso sul piede di guerra. Anzi, di più: il rabbino capo Riccardo Di Segni e il presidente degli ebrei romani Ruth Dureghello sono andati in cucina, e si sono fatti filmare mentre preparavano gli ortaggi. Come hanno spiegato, infatti i carciofi alla giudia non possono essere fatti con qualunque tipo di carciofo, ma solo con le “mammole”, o “romaneschi”, o “cimaroli”: tre nomi diversi per indicare una varietà tonda, tenere, priva di spine, coltivata solo tra Ladispoli e Civitavecchia, e con la corolla tanto stretta che vermi e parassiti non passano. Comunque, dopo aver tolto le foglie più dure il carciofo va poi messo in acqua spruzzata di limone, prima di essere buttato nell’olio. Insomma, puntiglio e purezza sì: ma nel senso giusto! E buon appetito…