Salvate il vino dalla politica
Amori e odi di un marziano con il calice in mano preoccupato da una nuova generazione ubriaca di demagogia al luppolo. Cosa può insegnare all’Italia economica la dorsale dei vignaioli. Viaggio scorretto in un paese di vino
Cosa ci fa un lambruschista a Barbaresco? Angelo Gaja mi corteggiava da anni cercando di coinvolgermi in mostre e convegni e io per anni ho fatto la vergine ritrosa, la bella figa, e a me piace molto fare la bella figa, un ruolo che si addice magnificamente alla mia accidia. Poi mi piaceva dire, e dirmi, che al Barbaresco preferisco il Sorbara. Un bel giorno l’uomo che ha portato il Barbaresco sulle migliori tavole del pianeta mi ha scritto per propormi un incontro pubblico sull’argomento Lambrusco: Lambrusco? Stavo barcollando. Lambrusco? Sì, Lambrusco. Per fortuna la sede dell’incontro era inaccettabile: Fico Bologna, il parco alimentare di proprietà delle Coop. Gli ho risposto che essendo anticomunista, antisocialista, antisociale, anticooperativo, di Lambrusco avrei potuto parlare ovunque tranne che lì. Anche a Barbaresco? Ma sì, anche a Barbaresco.
L’intera famiglia Gaja è sorpresa: le loro pendenze e il loro vitigno, il Nebbiolo, sono incompatibili con le macchine
L’arte del vino non consiste nel fare il vino, quello è alto artigianato, bensì nel venderlo a 135 euri la bottiglia
Eccomi dunque a Barbaresco. Che impressione, Barbaresco. E’ un paese minuscolo: tanto grande la sua fama, tanto piccola la sua estensione. Consiste in una sola via nemmeno tanto lunga e che non porta da nessuna parte, una stradetta cieca in leggera salita, fiancheggiata da case basse: l’unica un po’ alta, chiamata enfaticamente Castello, ovviamente è dei Gaja. E’ un paese di crinale, circondato da vigneti la cui forte pendenza mi ha dato da pensare: 1) qui bisogna bere poco altrimenti rotoli con la macchina fino al Tànaro; 2) qui bisogna lavorare molto, la meccanizzazione sarà difficoltosa. La prima domanda è pertanto: voi come fate con la vendemmia meccanica? L’intera famiglia Gaja (Angelo, Lucia, Gaia, Rossana, Giovanni) mi guarda come fossi un marziano: vendemmia meccanica? Certo, quella che Alberto Paltrinieri, vignaiolo per l’appunto a Sorbara, garantisce essere il non plus ultra e non solo sotto il profilo economico, com’è ovvio, ma pure sotto il profilo qualitativo, per via della maggiore tempestività, la possibilità di raccogliere tutta l’uva al medesimo punto di maturazione. (E sotto il profilo culturale, aggiungo io: meno manodopera uguale meno immigrazione). L’intera famiglia, nascondendo bene l’eventuale compatimento, mi spiega che le loro pendenze e il loro vitigno, il Nebbiolo, sono incompatibili con le macchine. Peccato, anzi darmagi come si dice nel dialetto locale di cui conosco pochissime parole tutte imparate sulle loro etichette, accusate un tempo di modernismo enologico e grafico eppure lessicalmente conservatrici: “Sperss”, il nome di un Barolo, significa “nostalgia”, “Conteisa”, un altro Barolo, ovviamente “contesa”, “Sorì” sono i vigneti esposti al sole mentre “Darmagi” è la sacrosanta esclamazione di Giovanni Gaja quando vide il figlio Angelo piantare barbatelle di alloctono Cabernet. E adesso come posso disturbarli ulteriormente? Non posso capitolare subito, voglio venderla cara la mia lambruschistica pelle. Posso ad esempio dire che da qualche tempo il mio vino piemontese preferito è la Freisa vivace, beninteso nelle versioni di Walter Massa e di Domenico Capello (La Montagnetta). Angelo Gaja è un grande incassatore, non si scompone per simili punture. E’ un gigante del vino e un colosso del pricing: produttori di Lambrusco e di Freisa (e di Fortana e di Gutturnio e di Bonarda e di ogni altro sottovalutatissimo rosso frizzante) dovrebbero venire a scuola da lui. Su internet un Barbaresco Gaja non si trova a meno di 135 euri e non voglio ricordare a che cifra arriva sulle carte dei ristoranti. Jeff Koons ha detto che “l’arte non consiste nel fare un quadro, ma nel venderlo”. Parafrasandolo si potrebbe dire che l’arte del vino non consiste nel fare il vino, quello è alto artigianato, bensì nel venderlo a 135 euri la bottiglia. Che diventano facilmente 350-380-400 per le ultime annate dei tre cru leggendari Costa Russi, Sorì Tildin, Sorì San Lorenzo. Come fa? Decisiva è stata la scelta già paterna di puntare sul cognome, così breve e felice, stampandolo in grande sulle etichette. Da ragazzo, dunque negli anni Cinquanta, Angelo Gaja giocava a boccette nel bar Savona di piazza Savona ad Alba (oggi toponomasticamente privatizzata: piazza Michele Ferrero). Ci incontrava gli amici, ci incontrava Beppe Fenoglio, con la sigaretta in bocca che presto lo ucciderà, ci incontrava l’antipatia dei concorrenti che lo segnavano a dito: “Quello lì è un Gaja: loro non vendono Barbaresco, vendono Gaja”. L’accusa di superbia passa di generazione in generazione, alla maniera dei nomi: Angelo si chiama come il nonno e suo figlio si chiama Giovanni come suo padre e come colui che fondò la cantina nel 1859. “Una languida catena”, canta il fenogliano Giovanni Lindo Ferretti… Per il resto Angelo Gaja è un uomo straordinariamente libero che produce solo i vini che gli piacciono: niente vini economici (non sia mai), niente vini frizzanti (niente Freisa), niente vini dolci, niente Barolo chinato. Si può definire orgoglio o si può definire dignità, decida il lettore, ciò che lo spinge a non mettere il marchio Bio sull’etichetta. Potrebbe farlo, potrebbe come tutti piegare il capo agli enti di certificazione e pagare un modesto pizzo in cambio della tranquillità garantita dal conformismo ambientalista. Nei suoi cento ettari, in completa autonomi, senza pungoli esterni, ha già abolito i concimi chimici e i diserbanti, come mi spiega in una lunga e dettagliata lezione, con tanto di diapositive, nella sala convegni del Castello.
Le certificazioni Bio somigliano alle lauree contro cui si scagliò l’unico presidente non statalista della Repubblica italiana, “pezzi di carta che valgono meno della carta su cui sono scritti”. Qui invece, un marchio
è più importante di un timbro, una famiglia è più importante di una burocrazia
“Si sieda!”. Dove? Mi sento un idiota perché ci sono decine di posti tutti vuoti: la lezione è individuale. Il figlio arriverà in seguito e pertanto la prima ora mi vede solitario in mezzo alla grande sala, una scena fantozziana. A scuola andavo poco e sempre all’ultimo banco a farmi gli affari miei ma oggi non si può sfuggire al professor Gaja. Non è possibile nemmeno sbadigliare, mi vedrebbe subito, tantomeno distrarsi su internet durante la fluviale dissertazione dedicata a humus e vermi rossi, feromoni e tignole, rame e zolfo, oidio e peronospera, veccia e sovescio, api e farfalle… Meno male che un poco ne so: ma se non avessi saputo niente? Credo che avrebbe tirato diritto, senza pietà. Non è un romantico e quando parla di vigne piene di fiori precisa che tali commistioni sono finalizzate alla qualità del vino, non alla trasformazione di Barbaresco in set sentimentale (gli albergatori della zona ne sarebbero felicissimi, chiaro, solo che lui al turismo, anche all’enoturismo, è refrattario e infatti sul cancello della cantina c’è un cartello respingente, non si vende vino ai privati, pussa via). Gaja è un vecchio liberale e proprio in questa zona fra vari liberali finti (Camillo Cavour da Grinzane che non concesse ai meridionali la libertà di autodeterminarsi, Emma Bonino da Bra che non concesse ai bambini non desiderati la libertà di nascere…) è vissuto un liberale vero, Luigi Einaudi da Dogliani, autore di “Vanità dei titoli di studio”. Le certificazioni Bio somigliano alle lauree contro cui si scagliò l’unico presidente non statalista della Repubblica italiana, “pezzi di carta che valgono meno della carta su cui sono scritti”. E quando nella grande sala viene affermato con fierezza che qui non si vende un metodo ma si vende Gaja si sta dicendo che un marchio è più importante di un timbro, che una famiglia è più importante di una burocrazia. Che la credibilità, come l’amore, come il carisma, non si compra. A proposito, si è fatta l’ora della degustazione per la quale il padre mi affida al figlio maschio e alle due figlie femmine. Gaia (nome, non cognome, I, non J) e Rossana sono una prova difficile per il misogino che ritiene l’avvenenza nemica dell’obiettività di giudizio. Preferisco che a firmare quadri, libri, vini, siano uomini vecchi e brutti: siamo tutti più tranquilli quando il pericolo della seduzione è circoscritto alle opere.
C’è un altro motivo di turbamento: sul tavolo, horribile visu, compaiono le sputacchiere. La sputacchiera dissacra e io non intendo mancare di rispetto a nessun vino. La Toscana, regione enologicamente uggiosa, ampelograficamente povera potendo puntare quasi su un solo vitigno
E c’è un altro motivo di turbamento: sul tavolo, horribile visu, compaiono le sputacchiere. Io non sputo, non lo faccio in Emilia e non ho intenzione di cominciare a farlo in Langa. Non sopporto il Vinitaly anche perché nei miei incubi prende la forma di un’unica enorme sputacchiera, piazzata fra Verona e l’autostrada per un rito collettivo di profanazione. “La filosofia antica e il Cristianesimo vedono il vino come un canale di comunicazione fra Dio e l’uomo” ha scritto Roger Scruton. Dunque l’uomo contemporaneo, né cristiano né filosofo, come mai insiste a berlo? Solo per darsi un tono? Insomma la sputacchiera dissacra e io non intendo mancare di rispetto a nessun vino e tantomeno a vini di tal fatta. Se non reggessi l’alcol non sarei qui. Se un destino crudele mi costringesse a fare mille assaggi il triste contenitore avrebbe un attenuante ma le bottiglie sul tavolo sono quattro, un bianco e tre rossi, davvero non vedo il problema. Ecco, le ho assaggiate: adesso potrei descrivere il contenuto delle quattro bottiglie e in particolare del Barbaresco Gaja? Preferisco di no. Metodo della critica è il confronto e sono sicuro del mio giudizio su Lambruschi e dipinti siccome ne bevo e ne vedo tutti i giorni. Secondo Hume e anche secondo me il gusto è intessuto di famigliarità con gli oggetti dei quali si occupa, e di Barbareschi ne berrò due o tre all’anno e questo è il secondo Gaja della mia vita. Il primo giaceva avvilito dentro un bicchiere di plastica, a Reggio Emilia un Capodanno di molti anni fa, in una casa abitualmente disabitata dove qualcuno portò la blasonata bottiglia e qualcun altro gli ignobili bicchieri. Racconto il grottesco episodio ai Gaja per confermare eventuali pregiudizi sulle consuetudini alcoliche emiliane e per prendere tempo: sto cercando di capire a quale sfaccettatura del diamante del lusso appartengano le bottiglie e la famiglia che ho davanti. Ecco, la stessa di Hermès. Gaja ed Hermès sono nate entrambe a metà Ottocento, sono entrambe indipendenti, saldamente nelle mani dei discendenti dei fondatori, realizzano prodotti molto costosi e però nient’affatto pacchiani, tendenzialmente classici, poco o punto soggetti al mutare delle mode e inoltre, per l’eccellenza delle lavorazioni, durevoli anche dal punto di vista fisico-oggettivo (chi trova una Kelly dimenticata nell’armadio della nonna la può tranquillamente indossare, chi trova un Sorì San Lorenzo dimenticata nella cantina del nonno lo può tranquillamente bere). Né Louis Vuitton né Moët & Chandon, né Gucci né Fendi né Château Latour possono vantare tutte queste preziose caratteristiche, solo alcune.
Ma poi Angelo Gaja voleva davvero che parlassi di Lambrusco? Sì, non ho capito lo scopo di tale interesse ma sì, alla fine ho modo di tenere anch’io la mia lezioncina, sciorinare la filastrocca sul Lambrusco che non è un singolo vino né un singolo vitigno ma una grande famiglia di vini e di vitigni le cui differenze sarebbero facilmente riscontrabili anche dai non addetti ai lavori, se soltanto aprissero un po’ gli occhi (fra un Sorbara e un Maestri c’è innanzitutto un abisso cromatico), e poi sulle quattro province di produzione (Modena, Reggio, Parma, Mantova), e poi sulle multiformi modalità di rifermentazione, in autoclave o in bottiglia, e poi, e poi… Posso parlare quanto lui, se voglio.
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Il vino come metafora dell’Italia
Cosa ci fa un denigratore della Toscana enologica con una cassa di vini provenienti dalla provincia di Arezzo? La Toscana è regione enologicamente uggiosa, ampelograficamente povera potendo puntare quasi su un solo vitigno e nemmeno così versatile, il Sangiovese. Il Ciliegiolo è suo parente strettissimo, il padre o il figlio (i genetisti non l’hanno ancora capito), e zavorrato da tanto dna comune non gli si possono chiedere miracoli di personalità. La Vernaccia era cantata da Cecco e da Boccaccio mentre Fiumani e Bianconi, i poeti toscani d’oggi, nei repertori dei Diaframma e dei Baustelle non le dedicano neanche una citazione. Una ragione magari ci sarà. Il Vermentino per motivi a me ignoti riesce meglio in Liguria e molto meglio in Sardegna. I supertoscani a base Cabernet o Merlot sono subfrancesi, imitazioni bordolesi, vini coloniali il cui status di succedanei è certificato dai siti anglofoni (“MASSETO! PETRUS UNDER THE TUSCAN SUN”) e dai listini delle enoteche (il Masseto 2014 si trova a 600 euri, il Petrus stessa vendemmia a 2.300). In attesa di leggere lo strillo “PETRUS! MASSETO UNDER THE BORDEAUX SUN” stappo il Bòggina B (dove B sta per Bianco) della tenuta di Petrolo. Perché nel 2018 è un Trebbiano l’unico vino toscano che mi fa piacere bere. Mi fa meno piacere leggerlo e mi riferisco al lungo testo stregonesco in etichetta: “Noi di Petrolo, viticoltori in Val d’Arno di Sopra, discepoli di Nepo da Galatrona, di tradizione, cultura ed educazione eraclitea, dionisiaco-epicurea-lucreziana, ermetico-ficiana, leonardesca neo-platonica e giorgionesca neo-aristotelica, romantici e rivoluzionari, crediamo che Dio è in tutte le cose e che la terra stessa è Dio…”.
Cosa ci fa un maschio maschilista circondato da bottiglie rosa? Cerca di dimenticare l’avanzata femminista, ormai giunta alla seconda carica dello Stato. Quando si vuole bere davvero, niente di meglio di un rosato freddo, superiore accordo fra antociani e frigorifero. Chiaramente bisogna rivolgersi agli specialisti, cantine come Rosa del Golfo (Alezio Lecce) che la missione ce l’ha nel nome o come la gardesana Costaripa, l’abruzzese Cataldi Madonna, le pugliesi Leone De Castris, Candido, Conti Zecca che ci puntano forte imbottigliando tre, finanche quattro versioni di variato pallore.
La storia del vino italiano è giovane e le storie del vino italiano praticamente non esistono: dappertutto si legge che il primo rosato imbottigliato in Italia è il Five Roses di Leone De Castris (1943) e però mi sembra strano che il Chiaretto del Garda inventato dal sottosegretario per le belle arti Pompeo Molmenti nel 1896 abbia dovuto aspettare il boom economico per uscire dal limbo del vino sfuso.
Il rosa frizzante, la cura giusta alla piaga dello spritz. Le complicità grilline con la birra, nemica del vino e dunque della patria. Le virtù della Romagna e quelle del vermut, riconosciute anche da un nemico dei cocktail. La Barbera del vignaiolo biodinamico che fa in parte ricredere lo scrittore industrialista
Ho scritto o telefonato a tutti i principali produttori e non ne sono venuto a capo. Ci ho fatto la figura del fissato, dell’ossessionato, pazienza. Il mondo del vino italiano ci ha fatto la figura di chi vive, magari con qualche soddisfazione, alla giornata. Su Wikipedia versione francese la pagina Côtes-de-Provence fa cominciare la storia del rosé provenzale addirittura dai menhir: si parla dei Greci, dei Fenici, degli Etruschi, manca soltanto Noè. E le foto a corredo sono potente promozione enologico-turistica. Guardi le pagine italiane di Salice Salentino rosato, Chiaretto del Garda, Cerasuolo d’Abruzzo e sembrano compilate da un impiegato del catasto che quel giorno pensava alla pensione, leggi l’entusiasmante informazione “Istituito con decreto del 08/04/1976 Gazzetta ufficiale del 25/08/1976 n 224” e ti viene voglia di scappare per l’appunto a Saint-Tropez. Peccato perché i vignaioli sono gli italiani migliori, e i vignaioli del vino rosa sono ancora più simpatici. I rosatisti non la fanno mai cadere dall’alto, sono accessibili come i loro prezzi, di premi ne prendon pochi, ricevono lodi misurate e spesso di tono paternalistico ossia contenenti l’aggettivo “beverino” (per tanta critica enologica il “piacevole a bersi” è una diminuzione).
Sono un po’ gli stessi problemi che affrontano i lambruschisti, stavolta nel senso di produttori di Lambrusco, coi quali non mancano sovrapposizioni: non tutti sono d’accordo eppure i miei occhi sono convinti che il Sorbara, specie se proveniente dai terreni limosi della sinistra Secchia come gli adorati Vecchia Modena Premium e Lambrusco del Fondatore della Cleto Chiarli, sia precisamente un vino rosa. Perché non si può dire? Perché è frizzante? Ma il rosa frizzante non potrebbe essere la cura giusta alla piaga dello spritz? Ne parlavo con Stefano Berti a Forlì che mi stava versando un suo vino nuovissimo, ancora senza nome. “Ma è un Sangiovese rosato frizzante!”. “Detto così è brutto ma sì, sono partito dal mio Sangiovese, l’ho fatto rosato, poi ho aggiunto del mosto e ho imbottigliato: è meglio chiamarlo metodo ancestrale”. “D’accordo, ogni forma di culto degli antenati mi commuove, chiamiamolo pure metodo ancestrale, io però quest’estate vorrei berlo a Riccione perché è rosa e perché frizza”. Forlì è vicina mentre i rosatisti specializzati mi risultano lontani, per incontrarli tutti mi ci vorrebbe un mese on the road da Gallipoli e Sirmione, Alezio-Moniga passando per Ofena, oltre mille chilometri dal mare meridionale al lago prealpino. Sarebbe il mese meglio speso della mia vita, avendocelo da spendere. Disponendo soltanto di pochi giorni l’unica soluzione rischia di essere Verona, dove per il Vinitaly si riuniscono all’incirca tutti. E’ un grosso sacrificio ma forse per il rosa tocca farlo.
Cosa ci fa un impolitico con i programmi dei partiti? Verifica eventuali complicità dei medesimi nei confronti della birra, nemica del vino e dunque della patria (il nome originario dell’Italia è Enotria, non Beerland). Ne trovo una preoccupante nel programma del partito astronomico: “Incentivi per la nascita di maltifici, rimodulazione delle accise in base alle dimensione dei birrifici, sostegno alla ricerca per la coltivazione di luppolo autoctono”. Insomma aiuti alla birra e sgambetti ai vignaioli con un’ulteriore stretta agli indispensabili pesticidi. Poi mi abbevero a Google Immagini, digitando “luigi di maio birra” spunta una specie di spot birrofilo, il capo grillino in posa mentre si ciuccia una bottiglietta sulla spiaggia di Cagliari al tramonto. Romantico e nocivo: quante bottiglie di Vermentino e di Vernaccia di Oristano giacciono invendute per colpa di questo servizio fotografico?
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Cosa ci fa un nemico dei cocktail con una bottiglia di vermut in mano? Per berselo in purezza, diamine. Ho avuto anch’io la mia fase del bere miscelato ma al cinquantesimo nuovo gin ho gettato la spugna e il misurino, con l’olfatto sopraffatto dalle sempre più astruse botaniche (li capisco, poveri distillatori, in un mercato tanto affollato usare il ginepro non basta più, troppo ovvio, per differenziarsi bisogna buttare nel calderone alghe marine, mirto di palude, incenso, papaveri, foglie di loto, frutti di baobab, aragoste chissà se vive o morte, tartufo nero, estratto di formiche rosse…). Al cinquantesimo nuovo gin e al cinquantesimo nuovo speakeasy, gli stucchevoli bar in stile proibizionismo americano, barman con baffi e bretelle, sottofondo di vinili gracchianti, cocktail dolciastri perché così piacevano ad Al Capone, sono tornato al vino che è una cosa seria, non una mascherata. Concedendomi come doping solo il vino liquoroso detto vermut. Anche quest’ultimo soffre di uno scaffale rigurgitante e dopo il cinquantesimo nuovo vermut piemontese, stufo di gregarismi, sono passato al vermut romagnolo ossia al Baravelli Vermouth prodotto dall’omonima famiglia di vignaioli di Forlì (quanti bravi vignaioli a Forlì!) dietro ricetta dell’alchimista-liquorista Baldo Baldinini. I Baravelli ci mettono il cognome e il vino: non mi sovvengono altri vermuttisti muniti di vigne. Di vigne così belle, poi, sulle quali dovrebbe volare un aeroplano con striscione pubblicitario firmato Giovanni Pascoli: “Romagna solatìa, dolce paese”. A marzo sono stato a Calonga, la loro tenuta sulla collina forlivese, e ho ammirato i luoghi di un vermut a filiera cortissima oppure, volendo un’altra formula, a metro zero. A gennaio ero stato a Montebello di Torriana, nell’olfattorio di Baldinini sulla collina riminese, archivio di aromi rari, caveau di costose essenze, vista spettacolare su San Marino. Ovunque mi sono domandato: ma perché la Romagna è così giù di moda? “La Romagna non è mai scarsa. Bussa e ti verrà aperto” scriveva Bruno Barilli nel 1952.
E’ cambiato tutto in Italia ma grazie a Dio almeno questa definizione è ancora valida, ancor oggi la Romagna è nettamente più ospitale dell’Emilia o della Versilia, di molte mete italiane molto più reputate. Non capisco. Che non venga apprezzata la sua facilità? Costa troppo poco? Troppo vicina? Troppo comoda l’autostrada? Troppo gentili le cameriere? Non capisco tanta sottovalutazione io che in Romagna sogno di abitarci e avrei solo l’imbarazzo della scelta: Faenza? Ravenna? Cervia? La Romagna è talmente civile che puoi essere un artista mondiale, Nicola Samorì, e risiedere a Bagnacavallo, 16.000 abitanti. Oggi tutto passa dall’enogastronomia e il rilancio romagnolo deve passare dalle bottiglie studiate da Baldinini, Baravelli Vermouth e Baravelli Chinato. I piemontesi per quanto riguarda il vino chinato farebbero bene a mollare un po’ la presa, hanno già tanti vini celeberrimi, lascino campare pure gli altri. E non rompessero le balle con la tradizione: la tradizione è un’innovazione riuscita e l’inserimento del Sangiovese e della china gialla è riuscito benissimo. Pavese diceva che per bere il Barolo ci vogliono tre nasi: per avvertire che il Sangiovese chinato è molto più ricco di oli essenziali del Barolo chinato è sufficiente un naso solo.
Cosa ci fa un vignaiolo biodinamico a casa di uno scrittore industrialista? La mia piccola casa sui tetti di Parma sembra un nido romantico (tale e quale “Lo studio del pittore a Parma” di Giovanni Battista De Gubernatis, acquerello del 1812) eppure vi si incontrano appassionati di ciminiere: il primo sono io, il secondo è il Corrado Beldì, noto ai lettori del Foglio come raffinato reporter culturale e agli imprenditori come vicepresidente della Confindustria Emilia-Romagna. Dunque cosa ci viene a fare Camillo Donati quassù? Per l’omonimia? Per il comune lambruschismo? Anche. Ma fosse soltanto questo non so se potrei essere amico di un protagonista di Villa Favorita, la fiera alternativa, parallela al Vinitaly (14-16 aprile), dedicata ai cosiddetti vini naturali. Trovo l’aggettivo intollerabile. In natura il vino non esiste così come in natura non esistono le cravatte: è vero che in natura esistono le viti ma fra una pianta di vite e una bottiglia di vino c’è la stessa distanza intercorrente fra un baco da seta e la mia cravatta Rubinacci. Questa distanza è colmata dalla cultura e pertanto perfino il peggiore dei vini è un prodotto culturale, il frutto di conoscenze che si tramandano da millenni e che via via sono diventate sempre più scientifiche. Quasi tutte le viti dei vignaioli cosiddetti naturali sono innestate per proteggerle dalla fillossera, arrivata in Europa dall’America nel 1863, e gli innesti contro tale voracissimo insetto sono dovuti al professor Planchon, direttore della Scuola superiore di farmacia di Montpellier, e al professor Pulliat, titolare della cattedra di viticoltura all’Institut national agronomique di Parigi: se questa non è cultura spiegatemi, bevitori naturalomani, cosa intendete per cultura. Quasi tutte le viti dei vignaioli cosiddetti naturali sono cosparse di zolfo per proteggerle da un fungo chiamato oidio: l’utilizzo dello zolfo in funzione anti-fungo è dovuto al bolzanino Ludwig von Comini, farmacista e non certo omeopatico. Senza questi valorosi scienziati oggi a Verona si terrebbe la Fiera dell’Orzata e Barolo e Montalcino, Sorbara e Valdobbiadene sarebbero paesi sconosciuti e derelitti.
L’unico vignaiolo cosiddetto naturale che entra in casa mia, sotto forma di bottiglie o sotto forma di persona, è Camillo Donati e ci entra perché è cattolico. Rara avis: gli aderenti alle varie sette del vino primitivista (Vinnatur, ViniVeri, Triple A…) sono tendenzialmente pagani, adoratori della dea Gea, o Gaia, come la chiamava Casaleggio senior. Alcuni si spingono a riconoscere la mediazione sacerdotale di Rudolf Steiner, il profeta del cornoletame utilizzato nei vigneti siccome “la vacca ha le corna al fine di inviare dentro di sé le forze formative eterico-astrali. Nel corno avete qualcosa che irradia vita, anzi irradia anche astralità”. Altri produttori, meno spiritualisti o semplicemente meno sciroccati, adottano il linguaggio furbo della politica. “Le Triple A sono nate dal sogno che un giorno l’onestà sarebbe diventata di moda” scrive il distributore genovese Luca Gargano che potrebbe diventare il Beppe Grillo del vino italiano: Tre A come Cinque Stelle?
Per fortuna Camillo Donati non è steineriano né para-grillino e i suoi riferimenti sono classicamente biblici: per lui il glifosato è il Male, l’industria chimica la Grande Prostituta, una fermentazione riuscita un dono della Provvidenza, e se all’agnostico possono sembrare enfatiche sono parole piacevolmente famigliari per chi come me frequenta da sempre la Sacra Scrittura. Ricordo il segno della croce prima dei tortelli preparati da sua madre, una domenica a pranzo nella casa in collina vicino il castello di Torrechiara. E il crocefisso sul muro della cantina. Ma principalmente, parlando di vini, certe sue magnum di Barbera e di Lambrusco che sono le migliori bottiglie di Barbera e di Lambrusco che abbia mai bevuto nonostante le, o grazie alle, presunte anomalie. Cosa ci fa una Barbera a Parma? E come può avere, beninteso nelle annate più calde, 14 gradi e mezzo un Lambrusco? Sono le domande malevole degli scarsi in ampelografia e in enologia: studiassero, scoprirebbero che non c’è nulla di cui stupirsi. Seguissero l’eroico vignaiolo nelle sue giornate operose, vedrebbero che esegue personalmente ogni lavorazione, innanzitutto la potatura: alla maniera di un amante geloso non tollera che le sue piante siano toccate da mani estranee e mercenarie.
Non mi piacciono i vini biodinamici, mi piacciono i vini dinamici, e quelli di Camillo Donati lo sono estremamente. Cambiano di anno in anno (sembra scontato ma non lo è, esistono vini ingessati, impettiti, insensibili alle variazioni stagionali), cambiano di bottiglia in bottiglia, cambiano di occasione in occasione. Non si beve due volte lo stesso vino di Camillo Donati, Eraclito di Langhirano. Non stanno ferme le sue bottiglie. Dopo aver bevuto la sua Barbera rifermentata in bottiglia, e perciò danzante in bocca e viva al naso, una Barbera piemontese passata in legno sembrerà morta e sepolta. E lo scrittore industrialista comincerà a pensare che l’industria è ottima e abbondante in ogni campo, tranne che in quello del vino.