Gran successo per Five Guys, dove si addenta il mondo in un panino
Non c’è una parola in italiano in tutto il locale: in inglese il menù, gli scontrini, le insegne e le testimonianze affisse alle pareti. La riscossa dal nazionalismo da bar partirà da Milano
C’è un angolo di Virginia a due passi dalla Tour Eiffel, a due passi dal Big Ben, a due passi dalle ramblas e, da oggi, a due passi anche dal Duomo. Nelle stesse ore in cui la caffetteria sciantosa – pardon: la reserve roastery – di Starbucks apriva in piazza Cordusio, monopolizzando i titoli dei giornali e le polemiche dei sovranisti oltraggiati dallo stupro del genius loci, sbarcavano a Milano anche i sopraffini hamburger di Five Guys, ignorati invece dagli attaccabrighe, con l’eccezione di un manipolo di vegani (“you buy, they die”, il pungente grido di battaglia – ma le bestiole non hanno passaporto e, di questi tempi, le cause apolidi perdono mordente).
La storia, americanissima, comincia nel 1986: Jerry Murrell ha un tesoretto di 70 mila dollari e quattro figli da instradare; i due maggiori sono prossimi al college. “O vi faccio studiare o vi metto a vendere patatine”, l’allettante proposta: e quelli preferiscono la friggitrice ai libri, forse non irragionevolmente, ma nell’accordo riescono a spuntare anche la piastra. Uno più quattro fa cinque, ecco i five guys originali; “originali” perché nel 1988 arriva il quinto figlio: Jerry si dedica alla supervisione e i guys rimangono five. Per quasi vent’anni, Five Guys è un piacere per iniziati: una manciata di locali circoscritti nell’area di Washington e incensati dal passaparola dei connoisseur. Nel 2003, il primo ristorante in franchising: oggi sono 1.500 nel mondo, impiegano 15 mila persone, fatturano 800 milioni di dollari.
E’ la volta di Milano e Milano risponde presente: il locale è pieno e i nuovi adepti attendono il proprio turno lanciando occhiate incendiarie ai clienti già attovagliati: due operai, un professionista attento a non schizzarsi di ketchup la Marinella, un bimbo soddisfatto del rancio ma piuttosto ignaro di attingere dalla storia del fast food. Mi metto in fila e finalmente procedo a misurare il rigore filologico dell’iniziativa. Sacchi di patate in bella vista: celo. Recensioni appese ovunque: celo. Piastrellatura con serpentone ceramico biancorosso: celo. Arachidi da sgranocchiare per ingannare l’attesa: celo. Cocce d’arachidi disseminate sul pavimento da chi, l’attesa, l’ha già ingannata: celo.
“È una catena americana?”, chiede un ragazzo. Confermo e lui si unisce alla colonna.
Non c’è una parola in italiano in tutto il locale: in inglese il menù, gli scontrini, le insegne e le testimonianze affisse alle pareti. Nella stessa lingua, i cassieri interpellano i clienti e la brigata della cucina (a vista) comunica: sotto la guida di un’americanina bellicosa, la catena di montaggio dei panini viaggia con sincronia impeccabile, per la gioia degli spettatori-destinatari, commossi come di fronte a un’incubatrice. Un solo elemento tradisce la localizzazione del ristorante: la lavagnetta che svela la provenienza delle patate impiegate, consueto appannaggio di qualche produttore dell’Idaho e qui imputata a “Raffaella farm, Napoli”. Ma un doppio cheeseburger nella mano sinistra e un milkshake di vaniglia, burro d’arachidi e caramello con granella di bacon nella destra mi riportano difilato oltreoceano. Comincio a perdere l’orientamento. Dove sono?
C’è un’Italia di Starbucks, convinta che il caffè sia stato scoperto sulla Sila e divisa tra quanti gioiscono perché a Milano la catena ha abbandonato il frappuccino per l’espresso e quanti gridano alla cultural appropriation. Ma c’è anche un Italia di Five Guys, che non solo non teme le contaminazioni, ma vuole addentare il mondo in un panino. La ritrovo all’uscita: mentre pranzavo, la fiumana è raddoppiata. Il cuore galoppa: è il 31 gennaio 1990, Mosca accoglie McDonald’s, i russi si mettono in fila per l’hamburger della libertà. Partirà da Five Guys a Milano la riscossa contro il nazionalismo da bar? Join the revolution. We’ve got bacon.