Mangiare un maritozzo per rivivere la storia di Roma
Il primo dicembre si celebra il dolce più antico della capitale che ha sedotto poeti e artisti
Il primo dicembre è il Maritozzo Day, e in molti stanno ricordando la storia di quello che viene presentato come “il dolce più antico della tradizione romana”. I primi testi che citano questo dolce risalgono all'Ottocento ma c'è chi sostiene che il maritozzo sia antico quanto Roma. Anche se in 2771 anni, evidentemente, la ricetta ha avuto qualche aggiustamento.
Il 4 aprile del 1833 Giuseppe Gioacchino Belli scrisse un sonetto che si intitolava “La quaresima”, e che iniziava in questo modo: “Come io nun zò cristiano! Io fo la spesa/ oggni ggiorno der zanto maritozzo./ Io nun cenavo mai, e mmó mme strozzo/ pe mmaggnà ott’oncia come vò la cchiesa”. Il più grande dei poeti romaneschi spiega come per il popolano romano il vero cristiano è colui che durante la Quaresima mangia i maritozzi. Belli aggiunge anche una nota in italiano (dell’epoca) per spiegare: “I maritozzoli sono certi pani di forma romboidale, composti di farina, olio, zucchero, e talvolta canditure, o anaci, o uve passe. Di questi si fa a Roma gran consumo in Quaresima, nel qual tempo di digiuno si veggono pei caffè mangiarne giorno e sera coloro che in pari ore nulla avrebbero mangiato in tutto il resto dell’anno”. E qua c’è già quasi tutto. Il tono quaresimale è dato dall’uso dell’olio, invece del più consueto strutto. Tra gli ingredienti ci possono essere anche miele o burro.
Ma sul tema ritornò nel 1908 anche il grande folklorista Luigi Zanazzo, nel suo “Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma”. Con prosa in romanesco Zanazzo spiega come “una mucchia d’anni fa, dda noi, s’accostumava, in tempo de Quaresima, er primo vennardì de marzo, de portà’ a rigalà’ er maritózzo a l’innammorata. ’Sto maritózzo però era trenta o quaranta vorte ppiù ggranne de quelli che sse magneno adésso; e dde sopre era tutto guarnito de zucchero a ricami. In der mezzo, presempio, c’ereno du’ cori intrecciati, o ddu’ mane che sse strignéveno; oppuramente un core trapassato da una frezza, eccetra, eccetra: come quelle che stanno su le lettere che sse scriveno l’innammorati. Drento ar maritòzzo, quarche vvorta, ce se metteveno insinenta un anello, o quarch’antro oggetto d’oro”.
A riprova di ciò Zanazzo cita anche diversi stornelli: o “ritornelli”, come dicono a Roma. “Oggi ch’è ’r primo Vennardì dde Marzo/ Se va a Ssan Pietro a ppija er maritòzzo; Ché ccé lo pagherà ’r nostro regazzo”. “E dde ’sti maritòzzi:/ Er primo è ppe’ li presciolósi;/ Er sicónno pe’ li spósi;/ Er terzo pe’ l’innamorati;/ Er quarto pe’ li disperati”. “Stà zzitto, côre:/ Stà zzitto; che tte vojo arigalàne/ Na ciamméllétta e un maritòzzo a ccôre”. “E infatti certi maritòzzi ereno fatti a fforma d’un côre”, annota Zanazzo. E Belli inserisce “mmaritozzo” tra i vari sinonimi dell’organo maschile in uso a Roma, nell’altro famoso sonetto “Era padre de li santi”.
Prima di essere un dolce di Quaresima e per gli innamorati, però, si ritiene che il maritozzo sia stato un cibo per pastori. Una pagnottella caricata di dolce per dare energia nelle lunghe nottate da passare all’aperto accanto al gregge. Tuttora è un must per nottambuli e anche per chi fa colazione dopo il risveglio, per renderlo più calorico ancora, c’è pure la versione alla panna a cui nel 1964 Ignazio Sifone dedicò la sua “Ode ar maritozzo”: “Me stai de fronte, lucido e 'mbiancato,/ la panna te percorre tutto in mezzo,/ co 'n sacco de saliva nella gola,/ te guardo 'mbambolato e con amore./ Me fai salì er colesterolo a mille,/ lo dice quell'assillo d'er dottore,/ ma te dirò, mio caro maritozzo, te mozzico, poi pago er giusto prezzo!”. Adesso ci sono le versioni salate, con ripieni tipo coda alla vaccinara, baccalà e puntarelle o alici e burrata.
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