Il libro di Doninelli sulla sua dieta non è un libro sulla sua dieta, ma su chi siamo
“L’obeso è un mistico che conosce le cose nascoste”
Luca Doninelli, con “La dieta sono io” (La Nave di Teseo, 160 pp., €17 euro), è convinto di aver scritto un libro su uno – cioè lui – che prende il toro per le corna, affronta se stesso, dà un nome – cioè un peso – ai propri fantasmi (“ciò che ci induce a dimagrire appartiene allo stesso disagio che ci fa ingrassare, per fortuna la scrittura ti aiuta a tenerti fuori dall’ambito dei tuoi vizi…”) e, cavalier che fece l’impresa, ha perso cinquanta chili in ventisette mesi. Il che, limitandosi a una lettura di superficie, è anche corretto: il racconto ci accompagna attraverso tutte le ordalie che deve attraversare chi ci prova e ci riesce, è la storia di un uomo che un giorno capisce che deve ricominciare da zero e reimparare da capo a mangiare, a respirare, a mettere ordine, a rigerarchizzare il rapporto testa/corpo, a maneggiare senza pregiudizi la propria parte peggiore, a scardinare l’odio per se stesso generato dall’aver usato un’etica solo per limitarsi (“col magro risultato” – confessa Doninelli – “di averla trasformata in una giustificazione e in un elemento di contrapposizione col mondo”), e soprattutto a capire che stare male fa stare perfino peggio, il che sembrerebbe lapalissiano ma non lo è, e non lo è con quella crucialità sotto la cui forma, nella vita, si celano le verità più difficili.
Da quando quell’uomo deciderà di abbandonare “il club degli uomini-palla” dovrà scrollarsi di dosso l’ossessione più morbosa: che il proprio peso sia un destino. “Noi stessi siamo le nostre vittime preferite”, scrive, poi aggiunge: “Infatti le ragioni che mi hanno portato a pesare centoquaranta chili io non le so ancora tutte, ma dimagrire mi ha fatto capire che, per esempio, non ho tutti questi nemici che immaginavo, e che è assurdo alimentare i propri fantasmi”. Parla da uomo felice, Doninelli. Scrive da uomo felice e pensa da uomo liberato, in particolar modo quando racconta i pensieri che si agitavano in lui ogni volta che incappava nella propria foto e si chiedeva: “Sono io, questo?”. Ma il libro non è un diario di notifiche dietologiche ed è ricco di aperture alari di pura scrittura soprattutto quando Doninelli si mette allo specchio e si chiede: “Chi è un obeso? L’obeso è un mistico che conosce le cose nascoste fin dalla fondazione del mondo: quello che resta da grattare in fondo alla teglia delle lasagne, il sugo raddensato che giace, immerso nell’olio, in fondo alla pentola dell’arrosto. Per l’obeso non c’è nulla di più godurioso, mentre i commensali si sono spostati dalla tavola da pranzo alla sala per il caffè, di tornare di soppiatto in cucina per raspare il fondo delle pentole. E di molte altre cose, forse. Che sia lui il Capro Espiatorio della nostra società?”.
Però non è tutto qui, perché se è vero che una prosa onesta sugli esseri umani è difficile da scrivere, tuttavia “se parli per bene di una cosa sola, è facile che emerga anche altro”. Per esempio, se dipendesse da lui, questo racconto avrebbe come sottotitolo “Una storia milanese”, essendo la metafora esatta di ciò che è successo alla città in cui ormai abita da quarant’anni. “E perché se abitassi a Roma forse non sarei nemmeno dimagrito”. Ma parlare con Doninelli è anche perdersi nelle sue divagazioni. E quando dice “la letteratura di oggi è tutta uguale: ogni riga, un esercizio di intelligenza, del resto vige questa convinzione che la scrittura sia fatta solo di pieni e non di vuoti”, ecco che si capisce come questo suo libro sia anche un libro sulla scrittura, e sulla scrittura di uno che, mentre dimagriva, faceva dimagrire anche Victor Hugo, cimentandosi nell’impossibile riduzione teatrale de “I miserabili” per Franco Branciaroli. Ed è anche un libro su chi siamo, sul rapporto tra noi, il nostro corpo e i nostri pensieri, ma è un libro anche sul pensiero se, come sostiene Doninelli, “i geni sono tali solo se riducibili a un solo concetto. Aristotele? La forma. Platone? Le idee. Beethoven? Ta-ta-ta-tààà”. Un libro sulla liberazione e sull’essenziale visibile agli occhi, che finisce bene e comincia anche meglio, con un postulato di vivo amore per la scrittura: “La mia depressione svanì quando in ciò che mi deprimeva riconobbi una struttura: la sua descrivibilità”.