Ode al tiramisù
L’identità italiana che nasce in cucina e si afferma nel mondo. Come è successo per i soldi, i libri, la moda. Parla Alessandro Marzo Magno
E’ vero che la carbonara l’hanno inventata i canadesi? “Il cuoco bolognese Renato Gualandi ha testimoniato di averla creata all’Hotel Vienna di Riccione nel 1944 per il generale canadese Eedson Luois Millard, che per condire la pasta mise a disposizione gli ingredienti con cui i suoi soldati facevano la prima colazione. Era ampiamente documentato, ma sono io che l’ho scritto”. E’ vero che la Wiener Schintzel deriva dalla cotoletta alla milanese? “Una balla inventata esattamente nel 1963 da Felice Cùnsolo, un giornalista siciliano che viveva a Milano, e che diceva di aver trovato in un archivio una lettera di Radetzky in realtà mai esistita. Lì sono stato io a ricostruire il percorso attraverso il quale era stata creata questa fake news, cui peraltro hanno creduto gli stessi austriaci. Tant’è che se uno oggi va a Vienna gliela raccontano. In realtà la cotoletta in Italia è sicuramente arrivata dalla Francia: lo attestano alcuni ricettari tradotti. In Austria la Wiener Schnitzel si è sviluppata molto probabilmente in maniera autonoma, visto che c’è una tradizione locale di impanatura che origina dalla fine del ‘600. Comunque, la prima citazione di Wiener Schnitzel è del 1833; la prima citazione di cotoletta alla milanese è del 1855. Quindi non è possibile che i viennesi l’abbiano copiata dai milanesi”. Il tiramisù invece nasce nel 1981… “Affonda le sue radici nel XVII secolo ma il nome è documentato per la prima volta nel 1981 nel primo numero di una rivista che si chiama ‘Vin veneto’. E da allora ha fatto in tempo a diventare una delle parole italiane più cercate su Google. Dopo pasta, pizza, espresso”.
“Il genio del gusto. Come il mangiare italiano ha conquistato il mondo” è il titolo di un libro con cui nel 2014 il veneziano Alessandro Marzo Magno documentò la storia di 18 capisaldi della nostra cucina a partire dall’anno di più remota attestazione. Da “997: l’anno della pizza” fino, appunto, a “1981: l’anno del tiramisù”. Per restare alla classifica di Google: gli spaghetti sono invece del 1154, i maccheroni del 1279, il caffè del 1573. “La cosa buffa”, ci racconta, “è che la mia laurea era stata con una tesi sulle artiglierie veneziane del ’700. Invece poi mi sono messo a studiare e a scrivere per Garzanti di cose che sembra non c’entrino niente l’una con l’altra, e che invece rientrano in un preciso filone”. Vediamo allora la lista dei titoli. “L’alba dei libri. Quando Venezia ha fatto leggere il mondo”. Chiosa Marzo Magno: “Sì, spiega in che modo a Venezia nella prima metà del ‘500 è nata l’editoria moderna”. “L’invenzione dei soldi. Quando la finanza parlava italiano”. Marzo Magno: “Anche la banca e la finanza moderna nascondo in Italia. Tra Genova e Toscana, nel Medio Evo”. “Con stile. Come l’Italia ha vestito (e svestito) il mondo”. Marzo Magno: “Anche la moda al mondo l’ha data l’Italia”. Poi il cibo abbiamo, visto. “Anche la cucina”. E poi c’è questo “Missione grande bellezza. Gli eroi e le eroine che salvarono i capolavori italiani saccheggiati da Napoleone e da Hitler”. Marzo Magno: “I musei del mondo sono pieni di arte italiana, in gran parte legittimamente comprata. Ma ci furono due grandi saccheggi bellici che toccarono quasi tutta la Penisola. In modo più doloroso, ma anche ciò comunque ci ricorda che l’Italia ha dato al mondo la bellezza in tutti i sensi. Nel mangiare, nella moda, nell’arte, nei libri, e anche negli strumenti per far funzionare l’economia”.
Il nome del dolce a base di mascarpone e caffè è una delle parole italiane più cercate su Google, dopo pasta, pizza, espresso
Ecco: ci è sembrata appunto interessante sottoporre a quello che è forse il massimo storico vivente dell’export italiano di bellezza e cultura nei secoli passati i dati sull’export italiano di oggi. In particolare ad esempio i dati Sace di febbraio, che ci indicano che mentre il governo gialloverde arranca e le agenzie di rating ci minacciano, questo export a febbraio è aumentato del 3,4 per cento rispetto allo stesso mese del 2018. Come osserva la stessa Sace “si tratta di un segnale positivo per il Made in Italy, in considerazione della congiuntura europea e internazionale, in rallentamento rispetto all’anno precedente”. Ma quali sono i settori che tirano? Più 7,8 per cento food; più 6,5 moda e abbigliamento; più 4,1 meccanica strumentale. E potremmo ricordare anche Draghi alla testa della Bce e un patrimonio artistico che è il primo al mondo. Marzo Magno: “E’ così. I secoli passano, ma l’Italia continua a primeggiare sempre nelle stesse cose. Il gusto del mangiare, il gusto del vestire, quelle macchine strumentali della cui storia fa parte l’inizio dell’editoria. E’ l’ingegno italiano. Siccome gli italiani sono dei grandi inventori e dei grandi innovatori, sono stati in grado di innovare sia il prodotto, sia poi quel che è necessario per ottenere il prodotto, quindi il macchinario. La meccanica resta un settore di eccellenza. Per fortuna rimaniamo un paese manifatturiero, dove la meccanica rimane al primo posto”. Però cresce meno rispetto a food e moda. “Sì, perché è un settore maturo. Food e moda sono invece più elastici: può esserci più espansione ma anche più recessione. Però dobbiamo essere ottimisti, e guardare alle possibilità di espansione. E che sul cibo ci siano delle possibilità mostruose ce lo dice un particolare: l’80 per cento del cibo italiano che si mangia nel mondo non è in realtà made in Italy ma Italian sounding. Basterebbe erodere quote di questo 80 per cento – non è neanche falsificazione ma imitazione – e otterremmo dei margini di crescita assolutamente notevoli”.
In fondo anche la carbonara è nata come Italian sounding, per poi diventare un caposaldo della tradizione gastronomica nazionale… “In effetti non esiste alcuna ricetta di carbonara attestata antecedente la Seconda guerra mondiale. Ci sono cose che le assomigliano, come la ‘cacio e ova’. Ma non sono la carbonara”. La carbonara dimostra comunque che anche nell’Italian sounding ci può essere un gioco di andata e ritorno. “Sì, è la testimonianza della forza della cucina italiana. Ci imitano perché ci ritengono un punto di arrivo. Però indica anche una debolezza del nostro sistema produttivo, perché non siamo in grado di imporre sul mercato le nostre specialità. Coi francesi non succede. Guarda un po’ se provi a chiamare un distillato Cognac, e guarda cosa si scatena. Guarda invece se chiami un formaggio Parmesan”.
L’Italia ha dato al mondo la bellezza: nel mangiare, nella moda, nell’arte, nei libri, negli strumenti per far funzionare l’economia
Infatti Orbán ci ha impedito di continuare a chiamare Tocai quello che oggi è semplicemente il Friulano. Appoggiandosi alla normativa europea, lui che appena può l’Europa la attacca… “Visto che è di moda attaccare l’Europa, mi sembra giusto sottolineare come invece l’Europa tuteli il consumatore, anche più del produttore. Effettivamente, due nomi così simili come Tocai e Tocaji potevano indurre in confusione dei consumatori non avvertiti. Un normale consumatore finlandese, ad esempio, se vede al mercato due bottiglie col nome quasi simile ma fondamentalmente diverse, un passito liquoroso e un bianco secco, rischia di non capire. L’Italia non è stata sufficientemente abile per tutelare la propria denominazione per il fatto che mentre in Ungheria esiste una località che si chiama Tokaji, in Italia non c’è. La Francia ha acquistato vigneti di Tokaji in Ungheria e sappiamo benissimo che la Francia denomina i propri vini sulla base del territorio e non sulla base del vitigno come facciamo noi. Così ha aiutato l’Ungheria a prevalere. La stessa cosa rischiava di succedere con il Prosecco quando è entrata nell’Unione europea la Croazia, che ha un vino liquoroso di nome Prošek. Anch’esso diversissimo, ma quasi identico nel nome. Poiché però in provincia di Trieste c’è una località che si chiama Prosecco, nel 2009 il ministro dell’Agricoltura Luca Zaia ha allargato la doc del Prosecco fino a includervela, e ha salvato la denominazione”.
Resta la storia di Orbán che ricorre all’Europa quando gli fa comodo per poi attaccarla… “Ma i paesi più antieuropeisti sono proprio quelli che più hanno beneficiato dei fondi comuni. Anche l’Observer ha scoperto che il paese del Galles più pro Leave alla Brexit aveva goduto dei fondi comuni europei in modo massiccio”.
La fake news imperversa. “Una cosa che ho imparato scrivendo libri di storia è appunto che nella storia si raccontano una quantità di bufale che noi neanche ci immaginiamo. E nella storia della cucina il tasso di bufale è ancora più alto che nella storiografia tradizionale. Si racconta una quantità di balle mostruosa che tutti prendono per vere. Le spezie che nel Medioevo servivano a coprire i cattivi odori, ad esempio. Falso: chi aveva i soldi per comprarsi le spezie, che erano uno strumento di ostentazione della ricchezza, aveva anche i soldi per provvedersi di cibo fresco! Oppure l’altra balla che Marco Polo ha portato gli spaghetti dalla Cina. Inventata nel 1929 da un giornale americano. La storia della cotoletta”.
Non tutto però fa Italian sounding. Un caposaldo della cucina italiana come il risotto, all’estero è sostanzialmente sconosciuto, La polenta o il minestrone, idem. Alla fine l’Italia è soprattutto la Terra della Pasta al Pomodoro. “La pasta è stata molto legata alla migrazione italiana, perché gli italiani se la portavano dietro. Per rifornire gli italo-americani sono state create fabbriche e pastifici negli Stati Uniti, ma il grosso veniva dall’export, fino a quando con la Prima guerra mondiale non è stato bloccato. La pasta doveva andare tutta al fronte. Gli Stati Uniti hanno allora aumentato la propria produzione, e da quel momento sono rimasti il secondo produttore di pasta al mondo. Comunque gli abbiamo esportato la passione per pasta e pizza e, come ci dice appunto Google, per il tiramisù. E questo dimostra ancora una volta questa forza che abbiamo, perché abbiamo imposto a livello globale un prodotto nato pochi anni fa. Stesso discorso per il carpaccio, inventato nel 1963 da Cipriani a Venezia. Anch’esso in meno di mezzo secolo si è imposto in tutto il mondo”.
Ma perché si diffondono pasta, tiramisù e pizza e non si diffondono risotto, polenta e minestrone? “Secondo me, perché sono facili da fare. Il tiramisù non solo ha un bel nome, ma è il dolce che può fare anche chi non sa fare dolci. Non occorre farlo lievitare, non si rischia di bruciarlo. Anche la pasta è una stupidaggine: butti giù l’acqua, cuoci, condisci. Alla portata anche di un analfabeta della cucina: non come un risotto”.
Il commendator Cirio e le conserve del parmigiano Mutti. La Grande guerra che unifica gli italiani anche nel modo di mangiare
La pasta al pomodoro è peraltro una cosa recente… “Fino al ‘700, il pomodoro era guardato con grandissimo sospetto. Poi si diffonde, ma soprattutto in ambito monastico. Però la prima ricetta di spaghetti al pomodori che conosciamo è solo del 1827. Prima, anche a Napoli la pasta si condiva con burro, formaggio grattugiato e spezie. Con l’unità d’Italia il piemontese commendator Cirio con le sue scatole di pomodoro pelato fa un’operazione di marketing fantastica, diventando una icona di napoletanità dopo aver comprato per due soldi terreni di ex latifondisti del Regno delle Due Sicilie svenduti all’asta. Assieme ai pomodori in scatola del piemontese Cirio ci sono poi le conserve del parmigiano Mutti, che nascono per ottimizzare il ciclo di lavorazione del prosciutto. Prima della refrigerazione il prosciutto si lavorava d’inverno, e d’estate non c’era niente da fare. Così in questa stagione morta i produttori di prosciutto si misero a fare pomodori in conserva”. E la pasta al pomodoro diventa definitivamente piatto nazionale con la Grande guerra? “Direi di sì. La trincea unifica gli italiani non solo nella lingua e nell’identità ma anche nel modo di mangiare. Noi pensiamo che certe cose siano sempre state in un certo modo. Ma non è vero. La pasta era senza pomodoro, la pizza era senza formaggio, la prima ricetta di pesto attestata aveva il burro”. Insomma, anche in cucina la tradizione è in realtà un’invenzione continua. “Lo diceva Benedetto Croce. La verità non è qualcosa di bello e fatto ma in continuo farsi. Chissà cosa sta nascendo adesso che tra cinquant’anni sarà diventato tradizione…”.