Mentre la sinistra Slow food partiva alla carica contro i fast food, c’era chi andava oltre: il cibo barbaro e straniero contro quello civile e nostrano. Nella foto Salvini a Torino nel 2018, LaPresse

Cous Cous Klan

Antonio Pascale

Il cibo definisce i confini e costruisce i ponti, non importa se fast o slow. Ecco perché il sovranismo alimentare è contronatura

Però la destra arriva tardi su alcune cose, dai. Prendi il caso bollente degli ultimi giorni, il cous cous klan, la tendenza cioè, secondo Mario Giordano, a mangiare etnico e disprezzare dunque la nostra cucina. Che poi lo sappiamo è la migliore al mondo, e quindi siamo due volte scemi. Ora su questo versante, che chiameremo sovranismo alimentare, per amore di filologia alimentare, siamo costretti a ricordare alla destra che ha copiato. E sì, dalla sinistra. O almeno da quella parte della sinistra (che allora si raccoglieva intorno ad Arci Gola) che ha iniziato molti anni prima di Mario Giordano la battaglia contro il cibo che arriva da fuori. Dai su, coraggio, a Cesare quel che è di Cesare. Volete mettere alcune storiche dichiarazioni di Carlo Petrini? Non c’è partita. Ah, naturalmente quella parte di sinistra che poi sarebbe diventata Slow Food era certamente più raffinata, mica metteva su dichiarazioni grezze come il cous cous klan. Ma no, elogiava il nostro cibo calando direttamente il carico da 90: abbasso il fast food. Cioè, vuoi mettere. Luca Simonetti, qualche anno fa, con un suo piccolo e istruttivo saggio (mangi chi può, meglio, meno e piano, l’ideologia di Slow Food) che bisognerebbe ripubblicare, ricostruiva un po’ la storia del sovranismo alimentare che da Slow Food si sarebbe poi diffuso nei meandri dell’italianità comune e media.

 

C’è una parte di sinistra, poi è diventata sinistra Slow Food, che ha contribuito alla diffusione del sovranismo alimentare

E insomma, ecco un esempio delle dichiarazioni suddette. Il fast food stravolgerebbe i “mores”, i costumi, l’insieme delle abitudini e dei comportamenti a cui un popolo obbedisce, senza che alcuna legge li abbia stabiliti. “Il fast food, con la sua omologazione planetaria, ha fatto piazza pulita di queste tradizioni, di questi ‘mores’ (…) come si può rinunciare a consuetudini, a ritmi, a strati culturali che fanno la nostra storia, la nostra identità, senza correre rischi di imbarbarimento?”. E’ o non è un carico da 90? Fast food straniero e barbaro contro il sano slow food civile e nostrano. Da questo assioma, diciamo la verità, alto e raffinato, poi è facile, scendendo scendendo, individuare i barbari che rovinano i nostri beneamati mores. Difatti i barbari sarebbero ora quelli che barcone dopo barcone stanno rovinando l’italianità e promuovendo la sostituzione etnica, che tra l’altro, appunto, comincia proprio dai mores. Dunque, lo slogan basta col Fast Food è fratello gemello del ¡No pasarán! cous cous. E però. Con questo carico da 90 che pende o pesa sulle nostre spalle, con questo immaginario che minaccia invasione permanente, ora gli americani, ora gli africani, poi metti i cinesi, gli ebrei, i libanesi, i giapponesi, e insomma come facciamo a parlare di cibo senza spaventarci? Come possiamo parlare senza vergognarci ed essere accusati di attentare ai mores, del piacere di assaggiare cibo diverso da quello della nonna? Una volta intervistato da Fabio Fazio (vado a memoria) Petrini disse che le merendine moderne erano fuori dai mores perché la classica merenda italiana era pane e salame. E allora, se siamo cittadini di questo paese che guarda al pane e salame dei nostri nonni, e non è curioso del pane del futuro, poi, è chiaro che finiamo per elogiare la civiltà della nonna e condannare i fast food, cous cous compreso? Dai, se difendiamo i mores e commentiamo con amore e tenerezza i tempi andati, e allora inauguriamo il festival permanente della riscoperta e del ricordo. L’applauso ce lo guadagniamo e soprattutto una nicchia di mercato piccola e costosa la ricaviamo.

 

Smontate gli spaghetti al pomodoro e vedrete quanti abbracci e quante storie si portano dietro. Dalla Cina alle Ande

Il fatto è che se vogliamo parlare di cibo, dobbiamo eliminare ’sto carico da 90, fast food o cous cous che sia. Perché per mangiare – e mangiare sia la semplice pasta, pure il pane e salame, fino ad arrivare al cous cous – per mangiare, dicevo, noi dovremmo essere pronti ad abbracciare il nostro prossimo e non solo, a farci abbracciare dal nostro prossimo. Il cibo questo è: un grande e meraviglioso abbraccio generale. Emozionante e suggestivo come lo sono certi abbracci, non scevri da rischi, troppo calorosi, troppo indiscreti, troppo freddi, poi metti gli odori, ma insomma questo è il cibo: un abbraccio. Problema appunto. Cous cous o il fast food a parte, dobbiamo capire se siamo ancora disposti a concederci un abbraccio (attivo e passivo che sia) o siamo diventati troppo deboli? Siamo disposti a fare come Ulisse e portare formaggio e vino perché il cibo è il miglior strumento di conoscenza e di pace o abbiamo sempre paura di incontrare Polifemo? E quindi ci proteggiamo da chi porta il cibo. Decidiamoci. Così poi non ne parliamo più. Se scegliamo il sovranismo alimentare e allora rinunciamo pure all’esportazione. Che facciamo? Respingiamo i mores altrui e invadiamo con i nostri mores alimentari (che so le mele, il vino, certi formaggi e prosciutti) i mores degli altri? Coerenza vuole che se diciamo no cous cous e no fast food dobbiamo anche immaginare che il nostro vicino sostenga la stessa cosa, e sì, magari dica basta mele del Trentino (siamo campioni dell’esportazione), vino italiano e basta con formaggi e prosciutti o ortaggi. E sì, dai, dirà il nostro vicino: qua abbiamo i crauti (io non capisco la gente che non ci piacciono i crauti) che rappresentano i nostri mores e non voglio accogliere il vostro barcone carico di primizie. Il sovranismo alimentare poi ha un difetto, facilmente si trasforma in condominismo. Io che so di Caserta, anche se abito a Roma dal 1989, non ammetto altri mores che quelli rappresentati dalla mozzarella di Caserta. Mica quella di Salerno. Difatti ho sempre combattuto Salerno. Perché? Come perché, perché è più buona e io difendo le cose buone dei miei nonni, che appunto erano di Caserta. Tra l’altro, c’è Caserta e Caserta. Io avrei individuato alcune zone tipiche per la produzione di mozzarella dove secondo me è migliore, migliore di quella zona posta solo a 10 km, quindi alla fine, a conti fatti, abbraccerei solo una ristretta cerchia di persone, non più di 5. Che si fa? Chiediamo a gran voce un convengo straordinario alimentare ed eleggiamo il segretario, vanno bene sia Giordano sia Petrini, e chiudiamo il discorso dai, rinunciamo agli abbracci con lo straniero e ci abbracciamo solo fra noi, tra noi italiani, solo tra noi pochi casertani? Ah, nota non banale, il congresso sovranista alimentare di certo dopo aver stampato e pubblicizzato parecchi slogan acchiappa click, potrebbe avere qualche difficoltà.

 

Siamo disposti a portare formaggio e vino perché il cibo è il miglior strumento di conoscenza e di pace o abbiamo paura di Polifemo?

Il problema è che se come sovranisti alimentari difendiamo un semplice formaggio di montagna tipico, dovremmo lo stesso abbracciare parecchie persone. Tante quanto è lunga la filiera per la produzione del formaggio. Provate a scomporre il latte (secondo la storia raccontata da Roberto Brazzale). Allora, ci sono vacche acquistate in Baviera ma allo stadio di manze, manze a loro volta inseminate artificialmente da tori canadesi, e comunque (le vacche sono) nutrite con soia brasiliana, erba medica spagnola disidratata e mais americano (libero delle pericolose aflatossine), munte in una sala di mungitura con tecnologia tedesca, con l’aiuto di bergamini pakistani o albanesi, latte poi trasportato da un autista bosniaco, cagliato da un casaro moldavo. Vanno aggiunti alla filiera, casomai si abbia terra a sufficienza per produrre foraggio in casa, i concimi canadesi e tedeschi, il seme francese, aratri americani ecc. ecc. Tanta gente da abbracciare per un formaggio di montagna, pensate un po’ per un prodotto più complesso. Comunque, quelli di noi che nutrono tanto amore verso le nonne italiane e il loro cibo e tuttavia sono curiosi e desiderano prendere il testimone del tempo che fu e portarlo lontano, invece di fissarsi sull’italianità – e Slow, autarchia e banchieri – possono riflettere sulle dinamiche dell’abbraccio. Perché il cibo è lo strumento che ha permesso, e da sempre, di saldare sia i propri confini e nello stesso tempo di gettare ponti per raggiungere altre isole. La meraviglia e l’emozione oggi dovrebbe essere ancora più grande, perché siamo in un epoca di pace tecnologica, dunque, non dobbiamo invadere altre terre per coltivare (anche se esistono modi meno cruenti per farlo). Sì, finalmente, liberi dalla guerra, possiamo abbracciare e conoscere altre culture. Perché noi umani siamo anche questo: persone piene di emozione e curiosità a cui piace abbracciare e lasciarsi abbracciare- e non solo quelli che lasciano i cittadini con mores diversi agli angoli della strada fino a Natale. Il cibo ci permette di assaggiare i mores degli altri e farlo in pace. Voglio dire, sono altri i problemi legati al cibo, riguardano il modo di produrlo che va migliorato e reso sostenibile. Per questi problemi ci sono parecchie soluzioni, magari non le vediamo perché siamo troppo presi a raccontare il passato. Ma ottenuto il cibo, abbondante e buono, allora, suvvia, mangiamolo. Che altro dobbiamo fare nella vita, seguire virtute e conoscenza e anche il cibo che riassume le suddette. E che ci siamo rammolliti. Davvero. Con questa idea della purezza. Una banda di rammolliti, tutti a cercare e chiamare a gran voce mammina e nonnina. La purezza è l’unico concetto profondamente innaturale, tra l’altro veicolo sicuro di estinzione, a botte di purezza, protezione di confini finiremo come i regnanti inglesi ritratti nei quadri del seicento, brutti e storpi. E ci credo alzavano il tasso di consanguineità. La natura trae la sua forza dall’impurità, e il cibo è l’esempio più alto e riuscito di questa dinamica. Non so, prendiamo la pizza. Quando nacque era una sfoglia con un mezzo pomodoro spremuto sopra e tante mosche che ronzavano intorno (ci sono i racconti della Serao in proposito). E’ diventata pizza e ha avuto un successo planetario perché gli emigrati l’hanno integrata e modificata nei paesi di emigrazione e alcuni, una volta tornati, l’hanno ricostruita. E’ così com’è (naturalmente a me piace con la mozzarella di bufala di Caserta) per i viaggi e gli abbracci, le sofferenze, i calli ai piedi e le vesciche: è rotonda perché accogliente, c’è fatica dell’uomo e suoi premi di consolazione. E’ l’esempio più scemo e più rappresentativo, non c’è un cibo originale a pagarlo oro, perché in realtà la presunta originalità, il prodotto locale, tipico, quello che segna i confini e respinge l’altro o quello che volete è il frutto di un abbraccio, di un momento in cui noi umani abbiamo alzato gli occhi al cielo (per usare una metafora), lontano dai confini del nostro ombelico e abbiamo guardato il nostro prossimo e insieme a lui, di buzzo buono, ci siamo messi al lavoro, una parte io una parte tu: ed ecco il cibo da condividere. Dunque, che prendiamo gli spaghetti o il baccalà alla vicentina non c’è un piatto che nasca e si esaurisca dai confini ristretti, perché, appunto, il cibo è l’unica maniera per uscire dalle nostre ristrettezze. E lasciate perdere la pubblicistiche che ci tengono a ribadire che quel cibo è millenario e tipico di quel luogo, quelle sono costruzione a posteriori, acchiappa click.

 

Per difendere un semplice formaggio di montagna dobbiamo difendere una filiera lunghissima. Provate a scomporre il latte

Smontate gli spaghetti al pomodoro e vedrete quanti abbracci e quante storie si portano dietro: stiamo mangiando la mezzaluna Fertile, la Cina e Ande ogni volta che la nonna ci cucina pasta col pomodoro. Tra l’altro il pomodoro è il classico immigrato di successo. Potrebbe essere uno slogan per provare a essere perlomeno meno cinici. Il progenitore selvatico del pomodoro ha bacche così piccole da essere mangiate e disperse dagli uccelli, eppure dalle Ande ne ha fatta di strada. Grazie agli abbracci, agli incroci, ai viaggi di andata e ritorno, ora se prendete un cuore di bue misura almeno 100 volte di più rispetto al progenitore selvatico. E sapete il perché di tutto questo bordello, questi abbracci, queste fatiche? Per il piacere della condivisione. Un allenamento all’altruismo. Che si sa non è la nostra prima natura. Ma condividendo il cibo con gli amici e gli estranei (“favorite?” è una delle espressione più belle che i contadini c’hanno lasciato, quando sotto gli alberi, al riparo dal sole di certi estati, scoprivano il pane e per prima cosa te lo porgevano: favorite, appunto, chiunque tu fossi) mettiamo su un patto implicito, io condivido con te nella speranza che tu un giorno farai lo stesso, lascia stare se è fast o slow, se è cous cous o pasta italiana al cento per cento, il proposito del desco è lo stesso che reclamava Cicerone: nessun dovere è più imperioso che ricambiare un beneficio ricevuto. Non ci si fida di chi dimentica un favore ricevuto. Vale soprattutto per il cibo, genera storie, promuove l’ingegno e il lavoro di squadra e da pure, se ci pensate, un senso al nostro passaggio su questo mondo: e va bene, i confini, lo spazio, i cattivi odori, le complicazioni, il fast food e il cous cous, sinistra e destra, ma dai impariamo ad abbracciarci. Perché a volte nutriamo e salviamo persone, a volte siano noi che siamo nutriti e salvati: un modo per allenare la seconda natura umana. Arriva dopo, è faticosa eppure ci ha fatto arrivare stanchi ma felici a tavola: chi mangia da solo si strozza, no?

Di più su questi argomenti: