Chef Rubio è un italiano talmente vero da non leggere altro che Facebook e se stesso
Ritratto spietato del cuoco televisivo e internettiano più sbracato della rete
Al solo sentirlo nominare, Chef Rubio mi causa irritazione, erubescenza. Credo che se mangiassi qualcosa di suo mi verrebbe subito un’afta. Ammesso che qualcosa di suo sia possibile mangiare: a differenza di Bottura che parla e parla ma un ristorante, per quanto poco frequentabile, lo possiede, Rubio non ha un locale, nemmeno una di quelle trattoriacce per camionisti che gli piacciono tanto, manco uno di quei chioschi luridi che sono la sua passione. E’ un cuoco televisivo e internettiano, puramente mediatico, adesso dice che il piccolo schermo gli sta stretto e si vede che non conosce o si è dimenticato le cucine vere dove lavorano i cuochi veri, posti molto più soffocanti di qualsivoglia studio tv. Immagino cucini per sé e per i suoi cari, non saprei dire se beati loro o dannati loro perché giudicare un cuoco dai ricettari è come giudicare un politico dai programmi elettorali. A parole siamo capaci tutti. Da volumi come “Le ricette di Unti e bisunti raccontate da Chef Rubio” esce un forte odore di retroguardia: supplì all’amatriciana, linguine alla sorrentina, costate con cipolle… Roba antica, roba pesante, roba che poi ci vuole il caffè, l’ammazzacaffè, il bicarbonato e infine il rutto liberatorio. Qualcosa tra Aldo Fabrizi e Paolo Villaggio se non fosse che Gabriele Rubini, nome anagrafico, lo trovi su Twitter, non su “Techetechetè”. Qualcosa tra Aldo Fabrizi e Paolo Villaggio e Matteo Salvini, allora: lo Chef e il Capitano sono accomunati dagli pseudonimi duceschi, dalla bulimia social e dalle scorpacciate grossolane. Entrambi italiani veri, pensando molto a mangiare.
Eppure fra il già comunista padano e il tuttora comunista frascatano (il cuoco è nato nei Castelli Romani) qualche differenza ci deve pur essere, altrimenti non esisterebbe questo malevolo ritratto. Salvini è l’ultima raffica dell’uomo bianco, Rubio è la prima forchettata dei Mori invasori. Mi pare una buona sintesi, confermata dal profilo Twitter di colui che si definisce “Independent Chef, FoodFighter, Director, Photographer, Writer, Tv presenter” (fra romanesco e inglese il tempo per l’italiano non si trova mai). Soltanto a luglio, e il mese non è ancora finito, il ministro dell’Interno viene definito “piscialletto”, “cagasotto”, “codardo”, “bozzo inutile”, “coglione” oppure, forse citando il Belli o forse Bombolo, “cojone”, e poi “maiale”, “pupazzo” (molte volte), “FelpaPig” (moltissime volte)… Tutto perché Salvini sta tentando di difendere i confini nazionali, concetto che il food fighter proprio non tollera: “Confini e frontiere non sono la stessa cosa, ma tutti e due generano sofferenza”. Mi è venuta la tentazione di controbattere citando René Girard, secondo il quale le frontiere hanno la precisa funzione di contenere la violenza, oppure Régis Debray, secondo il quale “il predatore detesta i muri, la preda li ama”. Poi ho lasciato perdere, non va bene gettare il pensiero dei più raffinati intellettuali ai piedi di chi scrive che il potere di Israele “sarà sempre una scorreggia in confronto alla libertà del popolo palestinese”. Il livello gastronomico di Chef Rubio è ignoto, quello linguistico invece è chiarissimo. Quando non insulta Salvini insulta Netanyahu, “uomo di merda spalleggiato da tanti altri maiali”. Anche Israele ha la colpa di difendere i propri confini (più efficacemente dell’Italia, in verità) e dunque agli occhi del cuoco che non cucina ma combatte è un “non-stato assassino, mostro sionista che da più di cento anni taglieggia il mondo”.
Scorrendo la scarica di ingiurie, la diarrea di parolacce, ho barcollato: allora non è vero che non esiste più la libertà di espressione, guarda cosa scrive questo… Poi ho capito: se io per timore di querele non posso scrivere il decimo di quello che penso del cosiddetto matrimonio di Tiziano Ferro, mentre Chef Rubio può vomitare addosso a Matteo Salvini tutto quello che pensa e pure quello che non pensa (“FelpaPig vergognati mortaccitua” più che un pensiero è un peto), non significa che esiste ancora la libertà di espressione, significa solo che Sodoma è immensamente più potente di Pontida. Non dico che il turpiloquente cuoco sia un vigliacco e se la prenda scientemente contro un avversario deboluccio: secondo me nemmeno lo sa, secondo me è talmente italiano vero da non leggere altro che Facebook e se stesso e di essersi così convinto dello strapotere dittatoriale di un vicepresidente di un vicegoverno. Davvero il fascismo (compresa la sua variante denominata antifascismo) è, come scrisse Piero Gobetti, l’autobiografia della nazione. Oggi lo ribadiscono gli abbondanti lettori dello scarseggiante scrittore Scurati e i 160 mila seguaci Twitter di un cuoco che non cucina: tutta gente che senza M e senza S, da idolatrare o linciare cambia poco, non sembra capace di vivere.
C’entra qualcosa tutto questo con linguine e supplì? All’apparenza no, siccome Chef Rubio, impegnatissimo a insultare noi vili codardi che non boicottiamo Israele, e a lodare Carola Rackete, non posta una ricetta nemmeno per sbaglio. E magari è meglio così perché il personaggio mi sa di sporco, meglio non accettare ricette da chi ha le braccia imbrattate di tatuaggi, il digitare sputacchioso e coprolalico, l’astio zeccoso per i locali puliti (si è scagliato perfino contro il Mercato Centrale della stazione Termini, isola di fragranza nel mare della puzza esquilina). O forse invece supplì e linguine c’entrano, nel senso che la cucina è stata per lui un cavallo di Troia. Partito come paladino dell’unto e bisunto, un po’ Er Monnezza dei fornelli e un po’ imitatore locale di Anthony Bourdain (gli invidio la murena fritta ingollata a Cagliari nel 2014: la murena mi manca), accumulato un gruzzoletto di notorietà è subito entrato nell’agone politico, sicuro di potervi parlare e ruttare liberamente siccome gli italiani non negano mai la loro simpatia a un cuoco e in particolare a un cuoco ancienne cuisine che promette porzioni abbondanti. Nemmeno se parteggia per i Mori invasori.