I francesi bevono rosa, gli italiani si sono rimbambiti con l'arancione
Un vino che produciamo anche noi, ma non chiamatelo rosato
I vini francesi non sono migliori dei vini italiani: sono i bevitori francesi a essere migliori dei bevitori italiani. Lo capii scoprendo che le parigine più eleganti non bevono champagne, lasciando volentieri quel vino addizionato, pasticciato, agli stranieri arricchiti (i russi) o impoveriti (appunto gli italiani), insomma a persone che presentano al contempo problemi di status e di palato. Adesso me lo conferma l’Economist: lo scorso anno nei supermercati dell’Esagono le vendite di rosso sono calate del 5 per cento mentre quelle di rosa (loro lo chiamano rosé) sono aumentate del 6 per cento. Quest’estate il fenomeno è addirittura esploso e alcune aziende si sono ritrovate con le cantine perfettamente vuote, senza più una bottiglia da vendere. E sto parlando di vignaioli francesi, mica italiani, dunque con prezzi di tutto rispetto: il provenzale Château d’Esclans vende il suo Garrus a oltre cento euri, e se non volete spendere tale cifra andatevi almeno a vedere il sito per capire come tale cifra si possa raggiungere. Villa ottocentesca tirata a lucido, ortensie di un blu spettacolare, belle donne, uomini eleganti, canzoni di Sinatra, bottiglie monumentali, bicchieri lussuosi… (Non fatemi fare confronti col bonario immaginario del prosecco altrimenti Zaia mi telefona un’altra volta, come quando ho manifestato le mie perplessità sulle colline di Valdobbiadene patrimonio Unesco, e mi accusa un’altra volta di leso Veneto, cosa che un venetista come me non può sopportare).
Mentre i francesi bevono rosa, gli italiani bevono arancione. Se dopo Ventimiglia si beve vino vero e di classe, prima di Mentone si preferisce un beverone dozzinale, ed ecco la drammatica differenza fra Costa Azzurra e Riviera Ligure, fra Picasso e Renato Birolli, fra Scott Fitzgerald e Paolo Villaggio. In Ucraina ci fu la rivoluzione arancione, in Italia viviamo la regressione arancione: tutti a bere spritz, uomini e donne, giovani e attempati, tutti ad affogare il sensorio dentro una pozione zuccherosa e dunque infantile perché i bambini, abituati al dolce latte materno, non tollerano l’amaro. Ed è certamente infantile apprezzare un bicchiere colorato come un pupazzo. Insomma lo spritz è la prova, reiterata ogni sera in ogni piazza, che gli italiani si sono rimbambiti.
Non che il vino rosa in Italia non esista, anzi. Se ne produce soprattutto in Puglia, in Abruzzo e sul Garda e in molti casi è buonissimo ma purtroppo nemmeno il Rosa del Golfo, il Cerasuolo Cataldi Madonna, il Rosamara Costaripa (da sempre i miei riferimenti) possono sognare di raggiungere i prezzi francesi. Eroica la battaglia di Luigi Cataldi Madonna affinché il vino rosa italiano venga chiamato appunto “vino rosa” e non “rosato” o ancor peggio “rosé”, aggettivo vetusto che lo fa sembrare un’imitazione del rosé provenzale, vino invece diversissimo per geoclima, vitigni, tecniche… Poi però ci vorrebbe un Angelo Gaja (guarda caso importatore dello Château d’Esclans) per raddoppiare i prezzi e riuscire a far percepire il reale valore del rosa. O forse non c’è nulla da fare, non si possono imporre gusti adulti a un popolo di bambinoni.
Antisemitismo e fornelli