Gli spaghetti sovranisti
Non è vero che Marco Polo li importò dalla Cina. E’ una storia d’ingegno e innovazione che inizia a Napoli
È fuori discussione che la pasta sia un simbolo dell’Italia a tavola. Centinaia di formati e migliaia di ricette, realizzate con prodotti diversi e con diversi procedimenti, sono espressione di una miriade di città e piccoli borghi. In quelle preparazioni si riflettono tradizioni e gusti che formano una cultura del cibo forse senza pari al mondo quanto a varietà di forme e di sapori. Questa incredibile varietà trova la sua cifra unificante in una sostanza, la pasta appunto, divenuta da tempo l’icona della cucina nazionale. Gli spaghetti al pomodoro, possibilmente conditi col formaggio parmigiano, ne sono il segno identitario per eccellenza. Massimo Montanari ha raccontato le vicende di questo piatto in un dotto e divertente volumetto fresco di stampa (Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro, Laterza).
Gli spaghetti al pomodoro, possibilmente conditi col formaggio parmigiano, ne sono il segno identitario per eccellenza
Interrogarsi sulle sue origini è ovviamente necessario, ma non basta. Come avverte l’autore, è interessante sapere non solo chi per primo ebbe l’idea di prepararlo, ma tenere presenti le condizioni ambientali, i luoghi, i percorsi che consentirono di coltivare quell’idea fino a farla diventare l’elemento distintivo di una tradizione gastronomica. In questo senso, va preliminarmente sgomberato il campo da una fandonia. “Contro Marco Polo” è il titolo di un dossier pubblicato sulla rivista “Médievales” nel 1989, in cui viene smontata la frottola secondo cui il mercante veneziano, al ritorno dalla Cina sul finire del Duecento, avrebbe fatto conoscere nel nostro paese la pasta. Si tratta di un falso. La notizia è assente da tutti i manoscritti del “Milione”, dove invece si parla della farina di sago (l’amido estratto da una particolare specie di palma) che gli abitanti di Sumatra utilizzavano per fare “lasagne e altri tipi di pasta”.
L’equivoco nasce però due secoli dopo, quando Giovanni Battista Ramusio, pubblicando le memorie di viaggio di Marco Polo, fraintende e manipola il testo: attribuisce l’informazione sulla pasta di sago, di cui aveva portato un campione nella Serenissima, alla pasta in genere, facendo credere al lettore che l’ambasciatore alla corte del Gran Khan Kubilai ne avesse scoperto il segreto nella terra di Confucio. Siamo nel 1559, e da allora la leggenda si è dilatata anche grazie a strampalate invenzioni fra cui quella di un giornalista americano che nel 1929, sul “Macaroni Journal”, organo dell’associazione degli industriali della pasta, attribuiva la scoperta a Spaghetti (sic!), uno dei marinai di Marco Polo. Tutto comincia quando il nostro eroe, sceso dalla nave alla ricerca di acqua, si imbatte in una contadina intenta a mescolare in una ciotola un impasto semiliquido, che si solidifica al clima caldo e asciutto del Catay. Il marinaio ha un’intuizione: pensa che un cibo secco, in grado di durare, potrebbe essere utile nei lunghi viaggi di mare. Ne compra un po’ e torna sovreccitato a bordo. Maneggia e tira l’impasto traendone dei sottili cordoncini, che prenderanno il nome dal loro inventore. Adesso bisognava cuocerli. La scelta è quella di bollirli nell’acqua salata del mare. Tornati in Italia, sarà un trionfo.
Gli studiosi hanno ampiamente dimostrato che il termine “macharoni” inizialmente indicava gnocchi di farina o di semola
Passando dalle favole alla realtà storica, gli studiosi hanno ampiamente dimostrato che il termine “macharoni”, attestato fin dall’undicesimo secolo, inizialmente indicava gnocchi di farina o di semola ritagliati da un impasto di un certo spessore. La loro inclusione nella categoria della pasta secca fu legata a pratiche come quelle descritte da Maestro Martino, il cuoco di maggiore talento dell’Italia del Quattrocento: assottigliarli o forarli all’interno erano modi per favorire l’essiccazione. I maccheroni siciliani, scrive, “si debbono sechare al sole”, e in tal modo “dureranno due o tre anni”. La menzione dello “spagho” nella ricetta dei maccheroni siciliani si riferisce proprio al ferro per bucare la pasta. La via agli “spaghetti” era aperta, anche se bisognerà attendere la metà dell’Ottocento perché questo termine si affermi; “maccheroni” resterà per secoli – e tuttora rimane a Napoli – la parola d’elezione per indicarli.
In proposito, Montanari cita un saggio pionieristico di Emilio Sereni, intitolato Note di storia dell’alimentazione nel Mezzogiorno: i napoletani da “mangiafoglia” a “mangiamaccheroni” (1958). E’ un capolavoro di storia dell’alimentazione, che si proponeva di capire quando, come e perché il gusto dei maccheroni si impose a Napoli. Analizzando diverse fonti, sia documenti d’archivio sia testi letterari e poetici, Sereni mostra che l’appellativo di “mangiamaccheroni” prima del Seicento non era un segno identitario dei napoletani, bensì dei siciliani. Infatti, nei secoli centrali del Medioevo proprio la Sicilia era stata il luogo di incubazione della cultura della pasta – e in particolare della pasta secca – nella nostra penisola. Poi accadde qualcosa.
Nonostante la sua crescente diffusione, a Napoli la pasta era considerata un prodotto di lusso o, almeno, di cui si doveva fare a meno nei momenti difficili: un bando del 1509 proibiva di fabbricarla negli anni di guerra o di carestia, per non sprecare grano. Ma attorno al 1630 avvenne un radicale cambiamento. Il mercato della città partenopea si era impoverito in seguito proprio alle frequenti carestie e al malgoverno spagnolo. L’approvvigionamento di carne, fino ad allora accessibile anche agli strati più umili della popolazione, diminuì drasticamente. I napoletani, tradizionalmente detti “mangiafoglie” perché la “foglia” (ossia il cavolo) era, insieme alla carne, il principale compagno del pane nel sostentamento quotidiano, furono costretti a inventarsi un nuovo regime alimentare.
Nel frattempo si erano diffuse a Napoli le due macchine-chiave dell’industria pastaria, attestate in Italia già nel Sedicesimo secolo: la gramola, cioè l’impastatrice meccanica, ispirata a quella che si usava nel settore tessile per maciullare il lino e la canapa; e il torchio, ispirato a quello per pigiare l’uva, che pressava la pasta nei fori di una trafila metallica per ottenere le forme volute. Ingegno per li maccheroni lo chiama Cristoforo Messisbugo, cuoco e intendente generale alla corte degli Este a Ferrara, nel libro di cucina pubblicato nel 1549. Dove si può osservare una coincidenza di interessi fra i modi di confezionare la pasta presso le cucine dei palazzi nobiliari e quelli usati in ambito manifatturiero. A Napoli, possedere un “ingegno” era un requisito fondamentale per far parte dell’Arte dei Vermicellari. L’adozione sistematica di queste macchine fu il passo decisivo per l’affermarsi su vasta scala di un metodo di lavorazione di tipo industriale. Questa innovazione tecnologica fece calare decisamente il costo di produzione della pasta e il suo prezzo al consumo. I maccheroni furono così promossi a cibo base dei napoletani, e il binomio pasta-formaggio sostituì il binomio cavolo-carne. Ecco perché, già sul finire del Seicento, l’epiteto di “mangiamaccheroni” cominciò a essere attribuito ai napoletani. I maccheroni diventeranno così lo “street food” per eccellenza nei quartieri popolari, e i banchi di vendita saranno oggetto di divertimento per i gentiluomini di passaggio in città.
Anche gli strumenti della tavola hanno un rapporto con le abitudini alimentari. Il caso della forchetta, strumento nuovo per un cibo nuovo
Ovviamente, anche gli strumenti della tavola hanno un rapporto con le abitudini alimentari, come mostra il caso della forchetta, strumento nuovo per un cibo nuovo. Fino ai secoli centrali del Medioevo, gli strumenti tipici per mangiare erano il cucchiaio (solitamente personale) per raccogliere i cibi liquidi, e il coltello (più spesso collettivo) per tagliare le vivande. Per i cibi solidi non c’era una posata specifica: erano le mani che consentivano quel contatto diretto, fisico, col cibo molto apprezzato ancora nell’Europa del Settecento, in quanto evitava il sapore sgradevolmente metallico della forchetta. La principale eccezione riguarda l’Italia, dove il suo uso precoce è documentato nelle corti principesche come negli ambienti borghesi, e perfino nei ceti popolari. La spiegazione è semplice. Ciò accade in quanto la forchetta è indispensabile per infilzare o arrotolare la pasta, la quale – per la scivolosità e il calore – mal si adattava all’impiego delle mani.
È questo il motivo per cui la forchetta si diffonde da noi prima che negli altri paesi del Vecchio continente. Il “Liber de coquina”, il più antico ricettario di cucina dell’occidente cristiano, redatto all’inizio del Trecento presso la corte angioina di Napoli, a conclusione della ricetta delle lasagne, non manca di precisare che è opportuno portarle alla bocca con un “punctorio ligneo”, una posata di legno appuntito che è una sorta di forchetta ante litteram. Sul finire dello stesso secolo una divertente novella di Franco Sacchetti ci fa incontrare un certo Noddo d’Andrea, raffigurato mentre a tavola “comincia a ragguazzare i maccheroni, avviluppa, e caccia giù”. Noddo era famoso per la velocità con cui riusciva a ingurgitare il cibo, anche caldissimo: mentre lui aveva già inghiottito sei bocconi di quei “maccheroni boglientissimi”, il suo vicino di tavola “avea ancora il primo boccone sulla forchetta”. E’ forse questo il primo testo che utilizza il termine maccheroni per indicare non gli gnocchi medievali, e neppure la pasta in genere, ma proprio gli spaghetti, che Noddo “avviluppa”, cioè avvolge e rigira.
Bengodi è il fantastico paese di Cuccagna, che a partire dal Medioevo compare nelle utopie letterarie di mezza Europa
Circa cinquant’anni prima è un’altra celebre novella del “Decameron” a portarci – insieme all’ingenuo Calandrino – nella favolosa contrada di Bengodi, dove il cibo è assicurato a tutti, in abbondanza e senza fatica alcuna: al suo centro “eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la qual stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e ravioli, e cuocerli in brodo di capponi, e poi gli gettavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva”. Bengodi è il fantastico paese di Cuccagna, che a partire dal Medioevo compare nelle utopie letterarie di mezza Europa. Come sottolinea Montanari, la montagna di parmigiano su cui rotolano maccheroni e ravioli ne è la variante tipicamente italiana. In età moderna i maccheroni saranno ormai altra cosa da come li intendeva Boccaccio, ma non cambierà il loro condimento, ormai un aspetto peculiare della nostra identità culinaria.
Trent’anni dopo la nascita del Regno d’Italia, Pellegrino Artusi pubblica La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, il libro che fonda la cucina italiana moderna attraverso la raccolta e la sistemazione delle ricette e degli usi culinari delle famiglie borghesi, contribuendo così alla costruzione di un patrimonio condiviso a cui, nel corso del Novecento, attingerà anche il mondo operaio e contadino. Sarà lui a diffondere la consuetudine “meridionale” di condire la pasta con la salsa di pomodoro, la cui ricetta viene fatta risalire a un aneddoto curioso che ha come protagonista un prete di Romagna,il quale “cacciava il naso dappertutto e, introducendosi nelle famiglie, in ogni affare domestico voleva metter lo zampino”. Perciò “il popolo arguto lo aveva battezzato ‘Don Pomodoro’, per indicare che i pomodori rientrano per tutto; quindi una buona salsa di questo frutto sarà nella cucina un aiuto pregevole”. La salsa, aromatizzata con cipolla, aglio, sedano, basilico, olio, sale e pepe, si presterà “a moltissimi usi, [ma in particolare] ottima per aggraziare le paste asciutte condite a cacio e burro”. Ancora Artusi aggiunge la salsa di pomodoro a piatti di pasta prevalentemente conditi con formaggio e burro, come nella più schietta tradizione italiana (almeno quella dei ceti medio-alti, giacché al popolo toccava piuttosto lo strutto). Solo nel Novecento le parti tenderanno a rovesciarsi: sarà il formaggio ad aggiungersi alla salsa di pomodoro.