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E' ora di ribellarsi alla dittatura del km 0 (occhio all'Istat)

Roberto Volpi

Analisi critica di una moda deleteria

Roma. Si seguono le rotte. Qualcuno traccia la strada e, se il tracciato ha un suo accattivante motivo d’essere, altri seguono. Anche molti altri. Finché il tracciato, estroverso prima, e arrischiato, entra d’un tratto, culturalmente parlando, a tutti gli effetti nel mainstream corrente. Così, non so bene come e chi e perché abbia lanciato l’idea del km zero. Quest’idea, esplosa nell’ultimo decennio dopo essere stata per un po’ d’anni sottotraccia, ha mostrato una capacità pervasiva – performante, com’è di moda dire – tale da tenere banco nell’alimentazione d’oggi, da diventare un must, un imperativo categorico o quasi. Comprare e consumare in casa propria beni e prodotti a chilometro zero, andare alla ricerca di agriturismo e ristoranti a chilometro zero: non dimostri di capire in che mondo stai vivendo, se non ti uniformi a questa realtà. Il mondo, a proposito di realtà, anche e specialmente alimentare, è progredito esattamente su presupposti opposti al chilometro zero con annessi e connessi. E basta leggersi qualsivoglia storia dell’alimentazione per capirlo. Il punto che decisamente stride in questa tendenza al km zero è l’averne fatto un canone, una regola e più ancora un comandamento alimentare ad uso, come sempre del resto, delle masse con qualche soldo in tasca da disgrossare dispensato a mani basse da chef e rubriche televisive che impazzano e che almeno il merito di aver sostituito nelle programmazioni e nella curiosità del pubblico le autoreferenziali e noiosissime rubriche di medicina ce l’hanno.

 

Oggi si vorrebbe che andassimo alla ricerca del ristorante a km zero, e guai se usa qualche ingrediente, nei suoi piatti, che viene da lontano, che non è del tratto di mare dirimpetto, del vigneto che abbracciamo con lo sguardo dalla finestra, dei prati e dei boschi che attraversiamo nell’andar per funghi. Perché? Perché il breve viaggio dalla raccolta e produzione alle nostre mense garantisce freschezza, affidabilità, gustosità – si assicura. Con le tecniche e gli strumenti di refrigerazione, mantenimento, trasporto che ci sono oggi è davvero questo un criterio dirimente? Anche una buona idea, questo è il punto, se curva in direzione dell’ideologia diventa un pastrocchio e fa danni invece di procurare vantaggi. Così sta succedendo al km zero, che sfiora di continuo l’insensatezza e si nega ai benefici della varietà e della bontà, da qualunque parti esse provengano. Questa del km zero ricorda molto da vicino la vicenda di un detto celeberrimo soltanto in tempi abbastanza vicini caduto in disuso e letteralmente seppellito dalla globalizzazione: mogli e buoi dei paesi tuoi. Non c’è chi non lo conosca, chi non l’abbia incontrato o sentito almeno una volta nella vita. Poteva esserci un detto altrettanto peregrino e più sbagliato di questo? Difficile, forse è il massimo abbaglio che la cosiddetta saggezza popolare abbia mai preso. Ma quella era la saggezza popolare, questa del km zero è saggezza dell’élite.

 

La saggezza popolare, che nella fattispecie saggezza non era affatto, non sapeva che geneticamente parlando chiudersi nella propria area geografica, specialmente se ristretta, nel proprio comune, specialmente se piccolo demograficamente, era l’errore più grossolano perché un difetto cromosomico si annacqua nella ricombinazione con DNA che non lo hanno e un vantaggio cromosomico si diffonde nella congiunzione con DNA che ne godono, ovverosia più si prende moglie (e marito) fuori dalla propria cerchia, lontano dalla propria casa. Si vive oggi molto di più anche grazie a questa ricombinazione cromosomica vantaggiosa legata agli spostamenti territoriali che incessantemente mischiano la popolazione. Si vive oggi molto di più anche grazie a diete che spaziano dal mare ai monti attraversando le pianure senza negarsi letteralmente niente. Negli ultimi cinque anni sono entrati nel paniere Istat per la rilevazione dei prezzi in quanto “prodotti alimentari che hanno acquisito maggiore rilevanza nelle spese delle famiglie”: biscotti e pasta senza glutine, bevande vegetali, preparati vegetariani e vegani, birra artigianale, avocado, mango, vini liquorosi, frutti di bosco e zenzero. Tutti prodotti da società ricca che più che al territorio guarda alla salute o, almeno, a ciò che crede che, col cibo, faccia salute, la mantenga o la accresca. Tra questi influssi e mode c’è pure il km zero, ma il paniere Istat già lascia sospettare, con quelle entrate di prodotti alimentari così esotici e in certo senso nouvelle vague, che anche la mistica del “territorio” in cucina, del km zero a tavola vada declinando e che potrebbe scomparire, come già moglie e buoi dei paesi tuoi, prima di quanto non ci si aspetti.

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