L'Italia del vino che resiste (per ora)
Le vendite si sono fermate, totalmente o quasi, a causa dell'emergenza coronavirus. Ma in cantina e in campagna poco o niente è cambiato. Così le piccole aziende vinicole guardano con preoccupazione al presente e al futuro
“A volte il vino è la manifestazione liquida del silenzio”. Lo aveva compreso Luis Sepúlveda. Lo scrittore cileno, morto per quel morbo silenzioso non ancora controllabile, che uccide tante, troppe persone e che, stando alle previsioni, decimerà decine di aziende, comprese quelle del vino. Non solo le grandi aziende vitivinicole, ma anche quelle piccole produzioni artigianali gestite per lo più a livello famigliare. Una fazione di resistenti in crescita negli ultimi anni, lontana dalle logiche della produzione convenzionale, chimica e interventista. Sono chiamati vignaioli naturali, artigianali, sostenibili. Le definizioni di sprecano. Fanno parte di quella schiera di piccole e medie imprese di cui flotte di politici italiani si sono vantati per anni. Oggi rischiano di chiudere. “Da parte nostra c’è molta disponibilità, ma non ci siamo, se andiamo avanti così chiudiamo l'azienda”, dice Aurelio Del Bono di Casa Caterina. Produce nel bresciano (in Franciacorta), zona colpitissima dal virus. A Monticelli Brusati, dove vive e lavora, “in 20 giorni ci sono stati 23 funerali”.
Sono questi vignaioli a raccontare come l'emergenza stia generando un profondo paradosso nella viticoltura, che calza con l'agricoltura in generale. Se da un lato le vendite si sono fermate (totalmente o quasi), dall'altro nulla impedisce alla vigna di crescere. “Con la pandemia, in campagna e in cantina è cambiato poco o nulla”, spiega Angiolino Maule, vignaiolo a capo di un'associazione di vino artigianale, Vinnatur, e titolare dell'azienda La Biancara. Siamo in Veneto, non lontano da Vo' nel padovano dove è partito tutto.
“È un contrappasso”, spiega Cataldo Calabretta di Cirò in Calabria. “Perché la vigna non la puoi fermare”. Le piante stanno germogliando, i vignaioli ogni giorno vanno in campagna a lavorare. Sistemano i tralci, preparano la pianta al nuovo frutto. Non sapendo che futuro li aspetti. Un ciclo che si ripete di anno in anno e che non si può congelare in nessun modo, se non sradicando e violentando territori e lavoro. La mano di questi contadini, al termine dell'estate, accompagnerà la trasformazione: fermentazioni, macerazioni, svinature, passaggi in botte, imbottigliamento. Un lavoro che i vignaioli non vogliono fermare. La manifestazione silenziosa raccontata da Sepulveda. Ma, nel frattempo, le bottiglie delle ultime annate restano in cantina.
“Di quanto sono calate le vendite? Del 100%. E non sto esagerando”, dice Giovanna Pacina, donna dell'agricoltura toscana. La sua fattoria omonima è di antica memoria tra i paesaggi da cartolina ad est di Siena, tra il Chianti Classico a nord e le Crete Senesi a sud. Negli anni, convinta del suo lavoro artigianale, ha fatto pure a meno della Doc. È tutto fermo, le visite turistiche e interi bancali di ordini non evasi restano nei depositi. “Vendo le mie bottiglie sia in Italia che all'estero. Ma non c'è paese dove esporto in cui le bottiglie possono partire”. Giappone, Usa, Canada, Europa.
Maule dichiara un fermo vendite del 90%, così come Del Bono in Lombardia, Francesco Guccione in Sicilia, Patrick Uccelli in Alto Adige, Calabretta in Calabria e tanti altri. Da Nord a Sud la stessa situazione drammatica. Non lo dimostra solo il mero vox populi ma i dati di un'indagine di Ixè per Coldiretti. Il brusco crollo del fatturato riguarda 4 cantine italiane su 10, con un allarme di liquidità che mette a rischio il futuro del vino in Italia, che occupa 1,3 milioni di persone per un giro d’affari di 11 miliardi di euro. A questi numeri c'è una considerazione da aggiungere: tra quelle quattro cantine più colpite si contano tante piccole aziende a conduzione familiare, che non vendono i loro prodotti tramite la grande distribuzione. Per scelta consapevole non hanno mai voluto che le loro etichette finissero negli scaffali dei supermercati.
Vanno alla distribuzione Horeca, ovvero alberghi, agriturismi, ristoranti, bar, trattorie. Tutti chiusi. Resiste qualche bottega che, in ogni caso, non può sopperire alla situazione. Così come la via della vendita online, difficile da mettere in piedi in poco tempo e comunque non in grado di colmare il vuoto commerciale. Senza vendite le aziende non riescono a far fronte ai pagamenti e a finanziare il ciclo produttivo che da maggio diventerà sempre più oneroso. Le misure messe in campo con il blocco delle rate di mutui, prestiti, tasse e contributi sono utili ma non bastano. Con l'ultimo decreto del governo arriveranno i finanziamenti con garanzia statale tramite Sace. “Ma quali sono i tempi?”, si chiede Francesco Guccione, che, dalla profonda Sicilia, un giorno sì e l'altro pure chiama la banca per saperne di più. È un uomo forte ma “l'incertezza – dice – mi fa paura”. Per i piccoli prestiti sotto i 25mila euro non ci sarà la valutazione nel merito e, dunque, i tempi saranno ridotti. Tutti gli altri invece dovranno aspettare, forse fino a luglio. Il rischio paralisi è altissimo.
“Se chiedo un nuovo prestito ma non ho liquidità come faccio a pagare la rata? Se aiuto un ristorante che riapre dandogli vino in conto vendita, come faccio a pagare le spese di gestione dell'azienda?”, si domanda Pacina. Quelle dei lavoratori, ad esempio. L'azienda toscana, per il momento, ha deciso di far continuare a lavorare il proprio aiutante in campagna. Altri hanno intrapreso la strada della cassa integrazione. In tutto ciò, c'è il lavoro stagionale alle porte, necessario per mandare avanti il lavoro in natura. La ministra Teresa Bellanova spinge per la regolarizzazione dei migranti che ricevono offerte di lavoro. Salvini più volte si è scagliato contro, proponendo voucher per far lavorare disoccupati e cassa integrati italiani. Ma a sentire i vignaioli, sono anni che la realtà agricola non trova negli italiani delle risposte: “Salvini fa presto a parlare”, dice Maule, “non ho mai trovato manodopera italiana a parte i miei figli. Anche con i voucher potrebbero non venire e preferire la disoccupazione”. E soprattutto: “Come fa chi fino a oggi è stato in ufficio ad andare a lavorare domani sotto al sole?”. Italiani o stranieri? Un dibattito sterile che non interessa chi lavora i campi. “Sarebbe più utile un taglio dell'Iva”, aggiunge Pacina, “anziché litigare sulla nazionalità di un lavoratore stagionale. A noi non interessa da dove provenga ma che abbia voglia di fare”.
Si rischia un abbassamento dei prezzi, per poter vendere a tutti i costi, però chi produce vino di qualità, con un'attenzione etica alla produzione, non ha intenzione di cedere. “Preferisco chiudere che vendere a prezzi stracciati”, dice Luca Elettri della cantina Insolente. La sua è una piccolissima realtà vicina ai Colli Berici, in Veneto. Confessa: “I sentimenti sono contrastanti. C’è tanto dolore per quello che c’è intorno a noi e comprendiamo le chiusure. La prima cosa importante è la parte umana, che ti coinvolge, ma siamo anche lavoratori, vignaioli, abbiamo un'azienda in grande sofferenza”. Intanto, la Coldiretti ha proposto al governo un piano salva-vigneti. Distillazione volontaria, togliendo dal mercato almeno 3 milioni di ettolitri di vini generici da trasformare in alcol disinfettante per usi sanitari.
La ripartenza rimane una via incerta e con risposte che hanno poche parole. “Mi è stato chiesto di fare la mia parte e mi sono fermato”, dice Patrick Uccelli dalla pallida Salorno. Confine tra Alto Adige e Trentino. Lui il coronavirus l'ha visto da vicino, con una famiglia contagiata che abita in un'appartamento della sua Tenuta Dornach. “Ci hanno trattato come untori”, racconta. Ma c'è un argomento che lo arrovella, non da vignaiolo ma da cittadino: la sospensione coatta di alcuni diritti e libertà personali. “Dobbiamo essere vigili e attenti – aggiunge – perché la limitazione di movimenti e l'accantonamento delle libertà non diventino la normalità”. L'emergenza è tale che si accetta tutto, si ingoiano restrizioni come una minestra fredda. “Il futuro ci chiederà di ripensare a quanto è successo”. Un dibattito che prima o poi verrà avviato seriamente e che potrebbe portare a risposte problematiche: quanti diritti siamo disposti a cedere in nome del contrasto di una pandemia? “Se all'inizio c'è stato chiesto uno sforzo per non far ammalare troppe persone e limitare l'urto sul sistema sanitario – prosegue –, nelle ultime settimane il leitmotiv si è trasformato in un imperativo categorico: non ammalatevi. È così passata l’idea della paura della morte. Questo riesce a scardinare tutto più facilmente e zittisce ancora più la discussione sulla libertà di movimento e il piano costituzionale. Il vero virus è la paura. Con la riapertura ci sarà la cultura del sospetto e della diffidenza”.
C'è uno struggente racconto di David Foster Wallace. Chiude la raccolta “La ragazza dai capelli strani”. Un uomo entra nella sua roulotte, dentro c'è la sua donna, Mayfly. Si stanno lasciando, o forse si sono già lasciati. Lui parla, lei guarda dalla finestra: “È tutto verde”, dice lei in risposta a qualunque tipo di sollecitazione, “è tutto verde”. C'è malinconia e struggimento, non c'è la rabbia, non c'è la frustrazione delle cose finite. C'è desiderio represso e attesa del futuro incerto. “È tutto verde”, continua a ripetere, come guardasse la sua vigna, pensando a quel che poteva essere e che, forse, non sarà.
Antisemitismo e fornelli