Contro i vitigni globali
Bere Granazza per dimenticare i mamuthones e lo Chardonnay coloniale
Corrado, mentre tu ti stai meritando la cittadinanza onoraria sarda io in Continente rischio continuamente il linciaggio, dopo i salentinisti ho subìto l’assalto del branco dei birristi, non vogliono che parli di squallida cervogia dunque oltre me vogliono censurare Francesco Redi, non tollerano si ricordi la presenza di fitoestrogeni nel luppolo, utili per far crescere le tette ai maschi…
Camillo, per rendere ancor più esaltante il mio giro non potevo che finire a Mamoiada, una piccola capitale del vino in Barbagia, vari piccoli produttori e un tramonto sulle vigne con dietro il Supramonte. Appena si è fatto buio ci siamo inoltrati nel centro storico, ben guardinghi per il timore di incontrare un branco di mamuthones, al primo suono di campanacci ci siamo infilati in un vicolo cercando riparo dietro a un muro di terra. Camillo, i miracoli esistono davvero, dietro quel muro abbiamo trovato Su Tapiu, enoteca per amatori dove Francesco ci ha tranquillizzati con ricotta gentile di Borore e confettura di arancia e zenzero, innaffiata da due bicchieri di Granazza, un vitigno autoctono da cui il cugino Simone Sedilesu, della cantina VikeVike, tira fuori poco più di mille bottiglie. Al primo sorso, la paura di quei mostri pelosi si è del tutto dileguata.
Accidenti, la Granazza mi manca! Conosci la mia sete di vitigni minori, minimi, massimamente peculiari, e la mia annosa battaglia contro i vitigni globali il peggiore dei quali è lo Chardonnay coloniale (definisco Chardonnay coloniale tutto lo Chardonnay prodotto fuori dai confini francesi). Lo Chardonnay è uno dei miei parametri preferiti, sulla base del rapporto con questo vitigno che riesce bene solo a Chablis e dintorni giudico un po’ tutti: non solo i bevitori, perfino gli artisti. Un infausto giorno andai a trovare il pittore Marco Neri, su un terrazzo rovente affacciato sul Gargano più spelacchiato mi offrì lo Chardonnay di una cantina sociale pugliese, tiepido, quattro colpe in un bicchiere solo, e in quell’istante il mio interesse verso i suoi quadri evaporò.
Camillo, il lavoro di Marco mi piace ma in questi giorni sono più rapito dalla scultura, in questo piazza Sebastiano Satta a Nuoro è uno dei luoghi più incantevoli che abbia mai visto, nel largo spiazzo leggermente inclinato Costantino Nivola mise una serie di monoliti che ospitano bronzetti sul poeta e le sue passioni, tra cui quella per il vino e attorno le case imbiancate, un albero di castagno e cento lampadine come nelle vecchie balere e nell’angolo un’osteria coi tavolacci di legno dove il veloce Peppino, appena seduti, ci ha accolti con una frase di Gabriele D’Annunzio, “non conoscete il Nepente di Oliena neppure per fama?” mentre stappava una bottiglia di Pro Vois della cantina Fratelli Puddu. “Io non lo conosco se non all’odore e l’odore, indicibile, bastò a inebriarmi“. Camillo, a differenza del Vate, noi il Nepente di Oliena lo abbiamo davvero bevuto.
Tutto molto pittoresco e molto instagrammabile. Le case bianche, le lampadine, i tavolacci sono immagini giuste per provare a colmare la distanza tra donne e vino, realtà meravigliose oggi divise da un fiume di stolido spritz. Io che mi trovo in luoghi meno poetici non ho immagini da proporre bensì bottiglie. Sono consapevole che molti dei miei vini prediletti possano non piacere a palati, maschili o femminili cambia poco, abituati ad altro. Ma c’è un vino prediletto che può piacere a tutti ed è il Moscato Fior d’Arancio di Maeli, nei favolosi Colli Euganei. Elisa Dilavanzo, vulcanica proprietaria, lo produce sia fermo sia frizzante, sia dolce sia secco, sempre al vertice delle diverse tipologie, e se a qualcuno non piace la versione spumeggiante a questo qualcuno non piace la vita.