Spazio Okkupato
Professione rider
C’è un accordo sindacale per i rider, anche se contestato. Non è più un lavoretto ma l’algoritmo fa sempre correre
C’è chi il necessario per vivere lo coltiva e chi lo raccoglie, chi lo caccia, lo alleva, macella, inventa, produce, fabbrica, aggiusta e studia. C’è perfino chi ne scrive. Invece, fin dalla preistoria, chi lo sposta è rimasto invisibile, ai margini della cultura del lavoro e delle norme che lo regolano. “Alle 7 del mattino Carl’Alberto entrò nella stazione di Roma e gridò: ‘Facchino!’. Un facchino si voltò risentito. ‘Dice a me?’ fece. ‘Facchino sarà lei’”. È l’inizio del romanzo Ma che cos’è quest’amore? di Achille Campanile, anno 1927, “V dell’era fascista”. Da allora le cose non sono molto cambiate: oggi la stizza del facchino potrebbe essere condivisa da chiunque si guadagni da vivere trasportando le cose, un mestiere che in italiano non ha neppure un nome se non il vetusto “fattorino” o l’anglico “rider” (sempre che al ministro Di Maio non venga in mente “consegnator”).
Eppure, in questi mesi di contagio ed e-commerce, trasporto e consegna sono stati fondamentali per la sopravvivenza di tutti e continueranno a esserlo in futuro. Finalmente, dopo anni di totale far-west, qualcosa si muove. In seguito all’accordo firmato tra uno dei sindacati dei rider, l’Ugl, e Assodelivery, l’associazione dei distributori, sono scoppiate proteste in una ventina di città italiane. L’accordo è stato bocciato dal ministero del Lavoro perché, pur introducendo un mimino orario, si baserebbe ancora sul “cottimo mascherato” e la ministra Nunzia Catalfo ha aperto un tavolo con le altre sigle, al momento arenato, dove si discuterà, oltre che di paghe, di coperture assicurative e perfino assunzioni, che Just Eat ha annunciato dal 2021 e che una sentenza della Cassazione ha ordinato a Glovo per un rider di Palermo. E-commerce e Internet si basano sulla totale trasparenza dei clienti e sull’assoluta opacità delle aziende. Proprio per questo è utile capire di cosa stiamo parlando.
Non si sa neppure, per dire, quanti siano i rider: la stima è intorno a 30 mila e per un terzo è l’unico mestiere. Considerarlo un lavoretto per studenti o nuovi immigrati non è più possibile. L’età media, che pochi anni fa era intorno ai vent’anni, oggi ha superato i trenta. Non ci sono donne, perché è un lavoro prevalentemente notturno, che perciò può essere pericoloso. Ognuno decide quanto e quando lavorare, ma non esistono luoghi di ritrovo, soltanto la strada, fattore che ha contribuito al ritardo con cui la categoria ha iniziato a reclamare diritti. Si conosce la classifica delle aziende: la più grande è Glovo (che non consegna solo cibo), poi vengono Just Eat e Uber Eats, che però è un ramo d’azienda di Uber (e a luglio è stata commissariata per caporalato, con l’accusa di intascarsi anche le mance).
Manca Deliveroo, che oltre al cibo porta la spesa. Amazon è fuori classifica perché dà tutto in outsourcing e può non rispondere delle condizioni di lavoro dei propri fattorini. Non esistono gratifiche né possibilità di carriera: un rider, per contratto, non dovrà mai crescere. Le paghe variano da città a città e da azienda ad azienda, e comunque si basano ancora sul cottimo (cioè sul numero di consegne), non sul tempo impiegato. In una grande città un rider instancabile, che pedali e consegni per sessanta-settanta ore a settimana, può guadagnare 1.700 euro nette in un mese, ma la gran parte non arriva ai mille euro, comprese le mance – un centinaio di euro mensili – che possono essere incassate cash o girate attraverso la app. L’assunzione avviene online e richiede, nel caso di stranieri, la presentazione del permesso di soggiorno.
Non esistono rider clandestini. Scarichi l’app e dopo massimo 24 ore hai la conferma. In caso di “assunzione” riceverai il “cassone”, il casco, la pettorina e in qualche caso anche la power bank per la ricarica veloce del telefonino. Il porta-smartphone da polso te lo spediscono a casa in comodato d’uso gratuito oppure versando una cauzione di 65 euro. Il casco viene cambiato dopo 4 mila consegne e la pettorina dopo millecinquecento. La bicicletta o il motorino sono a carico del lavoratore e non sono previsti indennizzi (o “ristori”?) in caso di incidente o usura. Negli ultimi anni qualcosa è stato fatto. Il contratto firmato da Ugl e contestato dagli altri prevede, per esempio, l’obbligo da parte delle aziende di fornire l’equipaggiamento e integrazioni, comunque già previste per legge, se si lavora di notte, in giorni festivi o con un tempo schifoso.
La legge 128/2019 ha fatto sì che dal 1° febbraio ci sia la copertura Inail per gli infortuni, che però funziona in base agli orari codificati dagli algoritmi che, spesso, non corrispondono a quelli effettivi. Il contratto contestato, che comunque è un piccolo passo in avanti, introduce anche un pagamento minimo orario (10 euro lordi all’ora), ma solo per le città di nuova apertura e solo per i primi quattro mesi dopodiché si ritorna al cottimo. Il problema, infatti, è proprio definire le retribuzioni in base ai tempi di consegna decretati dagli algoritmi che implacabilmente comprimono la realtà in sequenze prefissate e se ne sbattono di fattori come traffico, pioggia, ritardi dei ristoranti e di ritiro da parte dei clienti.
Il rider ha facoltà di accettare o rifiutare un ordine, ma non di ridiscutere il tempo calcolato. Significa che se una consegna è stimata 20 minuti, la paga lorda sarà di 3 euro, anche se è costata un’ora di lavoro. Negli Usa esiste un’espressione idiomatica: “Going Postal”. Significa andare fuori di matto, perdere il controllo, sbroccare, fare pazzie. Si diffuse a partire dal 1986 quando, anche in seguito alla privatizzazione delle poste americane, in California, New Jersey, Michigan, Ohio, Oregon e Oklahoma una ventina di impiegati e postini diedero di matto e si misero a sparare, uccidendo una quarantina tra manager e clienti. Per ora i rider italiani, a parte qualche intimidazione verso i “krumiri”, si sono limitati a pedalare in gruppo e a scampanellare.