Giovanni Barchetti ha fondato la sua gelateria più di sessant’anni fa in via Eleonora Duse (sopra, un’illustrazione di Norman Rockwell) 

Il gelataio della storia

Malcom Pagani

I rossi e i neri, la Lazio di Wilson e Re Cecconi, le star del cinema. E oggi il Papa. Da Giovanni, un’istituzione dei Parioli

Giovanni ha molti figli adottivi e nessun erede legittimo. Giovanni non ha moglie perché si è sposato con il lavoro. Giovanni si è trasferito a Roma a metà dei 50 e non se ne è più andato. Oltre il bancone del suo spartanissimo bar, tra le celle frigorifere di un piano terra illuminato dal neon, il signor Barchetti ha una piccola sedia, qualche mestolo, un televisore attaccato alla parete e una penna sporca di farina per aggiornare le regole della sua repubblica indipendente. L’ha fondata più di sessant’anni fa a nord della città, in via Eleonora Duse, e da allora ha concesso coni gelato e passaporti a milioni di persone. Partì da Amandola, dove le Marche si toccano con il Lazio, primo di sei fratelli, nel 1941. Una casa colonica in mezzo ai campi senza elettricità, i genitori mezzadri, un padre che “non tirava la carretta” e dalla fatica “si scansava spesso e volentieri” e una madre “tosta, tosta, tosta” da cui, si capisce, ha appreso la lezione. “Ero quello più responsabilizzato della storia. Cucinavo per tutta la famiglia quando ancora indossavo i pantaloni corti e davo una mano da contadino, ma il giorno diventava sempre notte e non si vedeva mai una lira. Io volevo dimostrare di potere ottenere qualcosa di più”. Così prese il torpedone, si riscoprì garzone di bottega “al tempo si chiamava cascherino” e con la bicicletta cominciò a consegnare pane e latte nei palazzi dei Parioli con il grembiule bianco e gli “errori” dell’età: “Capitava di eludere il controllo del portiere, salire le scale, suonare al campanello e ritrovarsi davanti al padrone di casa in vestaglia che guardandoti con la stessa commiserazione riservata al buon selvaggio sibilava “la servitù deve passare dall’entrata posteriore”. 


All’epoca, come dice Marco Risi, in quei luoghi “capitavano cose da via Pal. Il quartiere ancora in costruzione, lontano dalla pubblicistica che lo avrebbe incastonato per decenni nel più idiota degli stereotipi, era circondato da poderi, pecore e declivi ed era anche molto popolare. Tra i miei più cari amici c’erano il figlio del garagista e quello del parcheggiatore e i cruenti racconti sui ragazzini che si sistemavano oltre le recinzioni dell’antico tiro a volo e piccione per finire a colpi di fionda gli uccelli e riportarli a casa per mangiarli erano la quotidianità”. A Giovanni, alle sue cinquanta sfumature di sublime gelato e ai suoi prezzi da spaccio militare, però, Risi preferiva il bar della famiglia Piazza in via di Villa San Filippo. Lo raggiungeva a piedi da viale Parioli 103/A, indulgeva a creme e frutta da leggenda – “prendevi una coppetta e poi tornavi indietro per ordinare la seconda” – e sorrideva sul nome dell’impresa, “i tre frocetti”, dalla discussa e incerta origine. Il bar chiudeva a notte fonda, la geografia degli avventori era variopinta e il paese, oggi come ieri, non estraneo ad affibbiare marchi ed etichette. “Dicevamo ‘andiamo a prendere un gelato dai frocetti’, ma nessuno sapeva perché si chiamassero così e quando qualcuno riceveva una telefonata e si lasciava andare alla libera definizione: ‘Dove sei?’, ‘sono dai froci’, dalla cassa, il più simpatico del proprietari, intonava la sua preghiera laica: ‘Ahò, e mò basta, fatela finita’”. 
Sia come sia, c’erano gagà, puttane e a brillare, nei decenni, molte costellazioni eterogenee. Rossellini e De Sica, Mina e Silvana Mangano, il marchese omicida e pazzo di gelosia Camillo Casati Stampa, Massimo Troisi e Monica Bellucci, Federico Fellini che girava senza contanti, dalla tasca tirava fuori un assegno e lo compilava anche per pagare un caffè e i 150 chili egiziani di Farouk, il sovrano esiliato da Nasser, che improvvisava pokerini all’aperto, bluffava con una coppia di 7 e al momento di mostrare le carte si impossessava d’imperio del piatto al grido di “parola di Re”. D’altra parte certe delizie erano cose da sultani e nel Partenoncino disabitato del Super-Eliogabalo di Arbasino, l’imperatore si faceva portare l’ultimissima Urbis romae hit parade che tra l’Aurelia intasata e i carciofi del portico d’Ottavia, vergava una verità che Giovanni Barchetti si è sempre impegnato a confutare: “I gelati dei frosci sono i più buoni”. Lo ha fatto restando sempre se stesso e crescendo una tribù fedele, “che non aveva il grande spazio dei miei concorrenti né il richiamo mondano della Casina delle Muse o del Parnaso”. Lo ha fatto, giura, dando “la stessa qualità a un prezzo minore”. Ha tirato su più generazioni con le maniche sporche di uovo, le braccia da culturista e la canottiera sotto la maglietta. Si è fatto strada, si è emancipato e ha comprato degli appartamenti – “negli anni ho fatto i miei affari, certo” – ma per sé non si è concesso lussi. Vive in una casa piccola sopra il negozio, si sposta senza Lamborghini: “Mi basta una macchinaccia che mi porti dalla a alla zeta senza rompersi” e ogni sera, prima di tirare giù la serranda, sistema accanto ai contenitori con biscotti e caramelle una motoretta malconcia che sembra provenire direttamente dagli anni 70. 


Dei soldi a Giovanni non è mai importato niente. Li ha spesi solo per l’impresa: “Non ho mai licenziato nessuno”. Non ha mai fatto pagare i bambini e quando li ha visti diventare adulti ha applicato lo stesso metro in una sorta di premio fedeltà. Lui sostiene che ci sia un calcolo preciso: “I favori fatti sono cavalli che ritornano”, ma come non sia diventato povero è un mistero. Applica al centesimo lo stesso cambio lira-euro degli albori della moneta unica e fa pagare soltanto i clienti occasionali o i pochi che gli sono indifferenti. Nella peggiore delle ipotesi a chi gli è simpatico dimezza i conti e quando quelli, imbarazzati, provano ad agitare una banconota lui scrolla le spalle, dice un “per carità” e si ritira nel suo regno a infornare torte, schiacciare nocciole e guardare la Lazio in tv. Ha una sua precisa contabilità sentimentale e lo vedi da come accoglie quelli – che siano ultras, generali dei carabinieri o estetiste – che sanno come illuminargli gli occhi. Non è radicale come era Silverio, il ristoratore che a Ponza non diede un tavolo a Gianni Agnelli per pura antipatia epidermica, ma sceglie. E quando sceglie, come il Nanni Moretti di Bianca, sa cosa fa: “Perché io mica divento amico del primo che incontro. Io decido di voler bene, scelgo. E quando scelgo è per sempre”. 


Moretti – che in questa Olimpiade del gelato che per i romani riveste la stessa sacrale importanza della fuga a Fregene in febbraio in un giorno di sole – ha sempre premiato le pasticcerie di Monteverde o i cremolati del Du Park in faccia alla Piramide, da Giovanni non è mai andato. Ma forse non avrebbero saputo cosa dirsi. Giovanni che è più democratico di quasi tutta la sinistra italiana non è mai stato di sinistra: “Semplicemente non ho mai creduto ai dogmi e non ho mai accettato di considerare ogni individuo uguale a un altro”. Sull’Unità, in quasi cento anni di pubblicazioni, con nome e cognome è citato una sola volta. Il 15 agosto 1975. Nel taccuino “per chi trascorre il ponte in città” il giornale informa che nella Capitale in cui i pochi cinema rimasti aperti proiettano in seconda visione gli imitatori di Bud Spencer e Terence Hill, Simone e Matteo o il cacciatore di taglie Clint Eastwood, c’è la serrata generale. E nel deserto western, si aggira un pistolero gentile che ha sempre guardato i suoi avversari senza tirare pugni né sparare. Giovanni era amico dei calciatori laziali che in assenza di playstation, nella noia del ritiro, scaricavano le rivoltelle contro i lampioni. Frequentava Pino Wilson e CeccoNetzer, Luciano Re Cecconi, il biondo che per uno scherzo finito in tragedia, in una città in cui le armi si scaricavano tutti i giorni, morì al Fleming nel gennaio del ‘77 in una gioielleria, dell’architetto della squadra che vinse lo scudetto nel ‘74, lo stesso giorno del referendum sul divorzio, Tommaso Maestrelli e di Giorgio Chinaglia, l’uomo che in Germania, quando l’azzurro virò in tinte tenebrose, mandò a fare in culo in mondovisione il ct italiano Ferruccio Valcareggi. Chinaglia della Lazio era l’idolo indiscusso. E all’epoca in cui le curve, ancora apolitiche, ritmavano cori che una certa qual inclinazione in realtà tendevano a mostrarla: “Contro il sistema / la gioventù si scaglia / Giorgio Chinaglia / è il grido di battaglia”, chi si rivedeva in Giorgione sapeva che come in quella vecchia canzone l’eroe non sarebbe mai passato al Frosinone. Giovanni lo vedeva arrivare davanti al locale, con i capelli al vento, irredimibile e barbaro, “a bordo del furgone di un mio amico che mi consegnava il latte. Giorgio era appena arrivato dall’Internapoli e al posto delle scarpe, per ammorbidirle, calzava gli scarpini con cui avrebbe fatto gol la domenica”. 


Per salvarsi, sopravvivere, potersi continuare a divertire, Giovanni è rimasto ad allora. E’ astorico, fuori tempo, meravigliosamente anacronistico: “Se fosse venuto quarant’anni fa” suggerisce “mi avrebbe trovato vestito nello stesso modo a fare le stesse cose. Io sono quello che c’è dentro il vestito”. Come nel Barone rampante di Calvino, Giovanni ha deciso che non sarebbe mai più sceso dal suo albero, che avrebbe eretto una riserva indiana in tre metri per due di marciapiede e che l’unica evoluzione possibile sarebbe consistita nel non cambiare mai. Gli hanno chiesto di aprire una serie di gelaterie con il suo volto e con il suo nome, un po’ come al Freddy delle costolette di House of Cards, e Giovanni ha acconsentito. Ma se ne cura il giusto. E resta lì dove tutto è iniziato. Giovanni ha fatto del paradosso, ancorarsi al passato per andare avanti, la sua forza. Quelli che lo hanno potuto vivere quando era giovane hanno continuato a goderne e i figli dei primi, venuti dopo, lo hanno accolto come uno spettacolo in tre D del passato che non hanno mai avuto la ventura di osservare. 


Qui passano tutti. E Giovanni si ricorda di chiunque. Un aneddoto su Totti, uno su Malagò, uno sul ministro Enrico Giovannini: “Qualche settimana fa – dice Giovanni – gli faccio ‘Enrico, allora, ma che aspetta Draghi a chiamarti?’. ‘Lascia stare, tanto anche se mi chiamano non vado, ho ancora dieci progetti di legge nel cassetto che non mi hanno mai approvato’, e allora ho tirato fuori un campanaccio, gli ho incartato il gelato e ho fatto una scampanellata scaramantica”. Se ripensa a cose meno liete, agli anni in cui la mappa cittadina era un reticolo di quartieri vietati ai fascisti e interdetti ai comunisti, Giovanni usa una locuzione “rossi e neri” vetusta per gli “sloganatori” biasimati da Adorno quanto per gli esegeti del periodo. Dice proprio così, “rossi e neri”, e ricorda soprattutto i secondi che al bar venivano, venivano eccome. Avventori occasionali che si erano macchiati di colpe gravi: Giusva Fioravanti, Ghira, Izzo: “Che aveva gli occhi del pazzo e che capivi subito che non c’era da fidarsi” e altri militanti di destra che nella storia di Giovanni e in quella nazionale avevano un altro peso e un altro idealismo come i fratelli De Angelis. Marcello, futuro senatore di An e del Pdl e poi direttore del Secolo e un martire come Nanni, il ragazzo che sospettato di essere in qualche modo coinvolto nell’assassinio di Valerio Verbano ricevette una telefonata di suo padre e lo affrontò in uno storico colloquio a casa sua. De Angelis venne accompagnato dopo un’ora a un taxi dal signor Verbano che fece scudo a possibili vendette davanti a una folla di extraparlamentari improvvisamente ammansiti da un’assoluzione che non aveva bisogno di nessun tribunale. Nanni fu poi arrestato per altre ragioni nel 1980 in piazza Barberini, scambiato per Luigi Ciavardini, massacrato di botte dagli agenti in borghese travestiti da netturbini davanti al Tritone e poi buttato in una cella, in una sinistra anticipazione del caso Cucchi. Infine secondo una versione ufficiale opaca e piena di voragini si suicidò in carcere il 5 ottobre di quello stesso anno. Di Nanni e di Marcello, Giovanni era amico. E Marcello si chiamava anche suo fratello, battutista formidabile, intrattenitore nato, il suo completamento e la sua antitesi, dietro al bancone del bar. Quando si proietta ad allora Giovanni Barchetti ha una posizione dolorosamente ecumenica, quasi cristiana: “Era una follia senza ritorno quel periodo, bisognava fare in modo che finisse”. 


“Con il tramonto delle chiese politiche”, dice il giornalista Giovanni De Stefano, “l’ideologia di quel luogo, uno dei più romantici di Roma, con il suo albero a far ombra, lo stuolo di coppette fuori dai cestini e la sua panchina a far da sipario agli amori estivi, è diventata il giovannismo”. Il principio vivente di un’autorità morale. Giovanni è un signore di ottant’anni a cui darebbe retta anche una baby gang criminale. Se ti dice di raccogliere la birra, tu la raccogli. Se ti intima di scendere dal motorino, tu scendi senza discutere. Ancora De Stefano: “Sarebbe un ottimo sindaco, per la destra come per la sinistra, se solo l’esercizio del potere non fosse la cosa di cui gli importa meno al mondo”. Giovanni non vota da decenni e non ha mai fatto politica, ma ha accolto tutti e salvato quelli che si volevano salvare. Se ci fosse qualcuno a interpretare la parte del detrattore – non se ne trovano – avrebbe potuto essere una specie di Muccioli dei baristi. Ma a salvare la pelle a Carlo Forquet, ex militante del Pci e poi futuro direttore di San Patrignano per un trentennio, assalito di sera fuori dal suo bar a colpi di mazza dai neofascisti nel settembre del 1975, fu proprio lui. Lo portò dentro, tirò giù le insegne, chiamò un’ambulanza e poi, la mattina dopo, fece sparire salomonicamente i tavolini del bar. Per tutti e per sempre perché piangere non gli è mai piaciuto.


Giovanni ha saputo come ridere, ma ha visto i lutti in faccia. Il 29 gennaio del 2020, dentro il locale, è morto Adriano. Uno degli angoli della sua squadra storica con Vincenzo e Stefano, fratello proprio dello stesso Adriano. Un ragazzo con i capelli bianchi che sembrava la persona più incazzata del mondo e ogni tanto lo era davvero, ma si apriva solo con chi gli ispirava fiducia e sapeva voler bene come solo quelli bruschi sanno fare. Adriano è entrato a lavorare. Poi si è sentito male e se ne andato. Aveva 49 anni. E’ uno dei pochi che a memoria d’uomo abbia fatto piangere Giovanni. In quell’angolo di Roma che piaceva a Moravia e che secondo Enrico Vanzina “è da un lato il teatro naturale per universitari sfaccendati, ambasciatori, generali in pensione e madri con i propri bambini da esposizione in continua competizione e dall’altro non è neanche ascrivibile ai Parioli e pur avendo un certo fascino forse li invidia perché affaccia su una Roma irriconoscibile” il signor Barchetti per settimane ha consolato i clienti in pellegrinaggio. Poi è stato il primo a reagire perché si doveva andare avanti. Oggi al posto di Adriano c’è il figlio, una fotocopia del padre, serio, sobrio, quasi severo e sua madre, la moglie di Adriano che non le chiedi niente, ma lo sai da te che tanto ci sarebbe poco da dire e ancora meno da abbracciare o mostrarsi commossi. “Come ti capisco, come mi dispiace”, “ma che capisci?”. Questa è gente concreta. Gente che ha sempre lavorato. Gente che ai miracoli non crede, ma a volte i miracoli vede materializzarli. Gente che non si loda né si fa pubblicità perché non ne ha bisogno. 
Qualche settimana fa, dopo anni di consegne clandestine di gelato in Vaticano per mezzo di un amico monsignore, a Giovanni è squillato il telefono. Quando gli altri lo lodano di solito sente puzza di bruciato e si schermisce: “Non mi santificate che già avverto odore di incenso”. Ma questa volta in linea c’era il Papa in persona: “Volevo ringraziarti caro Giovanni, l’ultima volta il gelato era buonissimo”. A Giovanni si è incrinata la voce. La vita è molto amara, ma certe volte sa cambiare di sapore. 

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