Una scena del film "La banda degli onesti" di Camillo Mastrocinque 

Ah, che bell' 'o cafè al bancone

Giovanni Battistuzzi

Da oggi si è tornati a bere il caffè dentro i bar. Ci si è riappropriati di quella che Totò descrisse come “il gesto più veloce e semplice, ma senza il quale ci sentiremmo più infelici”. La passione degli italiani per l'espresso

Solo un caffè al banco. A pensarci una sciocchezza. Questione di qualche minuto, tra ordinare, bere e pagare. Eppure è molto di più che una questione temporale quella tazzina di espresso. Dentro ci sta una strana miscela che va dall’abitudine al gusto, dalla tradizione al gesto apotropaico, dalla necessità al piacere. Ma che parte dall’esigenza: “Un buon caffè è una questione quasi scientifica. Ci vuole l’acqua buona, la pressione giusta, una pulizia perfetta della macchina, i chicchi tostati alla perfezione e la velocità. In qualche decina di secondi deve arrivare dalla macchina al naso, poi alla bocca. Il caffè buono è quello caldo caldo, appena un filo sotto il bollente. Chi dice il contrario mente o è in malafede”. Amilcare Troes fu uno dei primi ad avere nel suo caffè a Trieste, il Café Tergeste (all’epoca al numero 2 di piazzetta San Giacomo), una macchina per il caffè espresso. Era il 1904 ed era una novità: solo due anni prima era stata commercializzata per la prima volta. Amilcare Troes divenne negli anni una sorta di maestro degli espressi.

Tra i suoi devoti fedeli c’era anche Umberto Saba. Al Café Tergeste era di casa, ci dedicò una poesia (errore storico abbastanza comune è credere che quei versi fossero dedicati al Caffè Garibaldi sotto il Municipio), si interessò dell’arte della torrefazione e affinò il gusto e l’olfatto.

Disse Saba che “le tazze di caffè scandiscono le giornate, danno forma e ordine alla confusione della giornata e al caos dell’esistenza”. Il poeta amava il caffè e seguiva le direttive del padrone di casa del Caffè Tergeste: “C’è solo un modo per assaporare il caffè: veloce, in piedi e con la bocca pulita”.

Da oggi si è tornati a bere il caffè al bancone, ci si è riappropriati di quella che Totò descrisse come “il gesto più veloce e semplice, ma senza il quale ci sentiremmo più infelici”. Totò considerava l’espresso una delle poche necessità che aveva oltre “all’ozio”. Espresso, rigorosamente espresso. A tal punto rigorosamente espresso che più di una volta ebbe da ridire con Eduardo De Filippo che invece preferiva quello della cuccumella, la cosiddetta caffettiera napoletana. A questo il drammaturgo dedicò pure un monologo nella sua commedia teatrale “Questi fantasmi”.

 

Della stessa opinione di De Filippo era il tenore Enrico Caruso che considerava l’espresso “una diabolica trovata della modernità”. La napoletana fu inventata da un francese alla corte di Napoli nel 1819, quasi un secolo prima della macchina per l’espresso. E Caruso, scriveva il banchiere Pasquale Simonelli, grande amante dell’opera e della lirica e che al tenore riuscì a far ottenere un contratto col Metropolitan Opera di New York, “era uomo tradizionalista dalle inflessibili convinzioni”.

Di cuccumelle nei bar non c’è più traccia. Le macchine per il caffè espresso hanno modificato le nostre abitudini, hanno soprattutto “reso il caffè finalmente degno degli italiani. Una botta e via, siamo o non siamo un popolo di seduttori?”, ironizzò Giovannino Guareschi. Che forse ironizzando aveva meglio di tutti colto il senso del caffè. Un piacere veloce, da bere in piedi, la giusta scusa per una pausa. Come sosteneva il triestino Amilcare Troes.

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