Foto Guberti / Rasero / LaPresse

Il gastronomo disperato

Il menù con nomi ironici dei piatti fa venire il (fior di) latte alle ginocchia

Camillo Langone

Tra Lazzi e ammicchi, questi spiritosoni ci chiudono lo stomaco

Gli spiritosi sono pericolosi. Massimo Bottura, per dire, il cuoco modenese che in epoca ormai remota lanciò la moda dei menù ironici, vorrebbe sbattere in galera Carlo Giovanardi e me. Lui è un partigiano del ddl Zan e noi invece crediamo nella Bibbia tutta e perciò anche in quel libro del Nuovo Testamento (Lettera ai Romani) in cui San Paolo definisce “ignominiosi” gli atti di uomini con uomini, aggettivo che in futuro ci potrebbe procurare 18 mesi di reclusione. Com’è possibile? E’ possibile perché, come annotò Friedrich Schlegel, “ogni arguzia tende al nichilismo”.

 

L’aspirante censore dei testi sacri non si è autocensurato mai, convinto di essere spassosissimo continua a imporre ai poveri clienti, intimoriti dalle tre stelle Michelin, piatti dai nomi ridicoli che rendono l’ordinazione imbarazzante. All’Osteria Francescana, che non è un’osteria e non ha nulla di francescano, in questo periodo propone un secondo ghignante: “Stiamo ancora decidendo che pesce servire!”. Chissà se in tavola arriverà una cernia o un cavedano, l’unica certezza è il prezzo, quello lo ha già deciso, 110 euri.

Ma il vertice lo raggiunse nel 2010 quando battezzò “Oops! Mi è caduta la crostatina al limone” un dolcetto spiaccicato su un piatto fintamente rotto. Puro decostruzionismo derridiano, cucinato con oltre quarant’anni di ritardo. Il problema è che nella disastrata ristorazione italiana i ritardi non si riducono ma si accumulano, e Bottura continua a produrre imitatori. Tutti terribilmente spiritosi.

 

L’altro giorno meditavo di cenare in un bellissimo e nuovissimo ristorante tranese quando scorrendo il menù su internet ho letto “Polpo di fulmine”. Mi è venuto da piangere e ho cenato a casa. C’è qualcosa di più triste di una barzelletta vecchia? Qualcosa di più patetico di un gioco di parole seriale? Nella stessa lista c’era inoltre una “Zuppa d’amare” e sarà stato il milionesimo parto dello straconsumato connubio mare-terra. Agli spiritosoni il bisticcio mare/amare risulta irresistibile, come fino a poco tempo fa il calembour vino/divino.

Due esempi fra mille: il Capriccio di Vieste con la “Parmigiana d’(a)mare”, insomma melanzane e gamberi, e Da Vittorio a Brusaporto col “Crudo “D’Amare”, ovvero pesci e crostacei. Dilaga un frasario similfaceto, stucchevole, che travolge anche i migliori e dunque Errico Recanati all’Andreina di Loreto invece di scrivere “Ostrica alla brace” (l’avrei presa) scrive “L’ostrica si dà le arie di brace” (l’ho lasciata lì). Figuriamoci se si tirava indietro quel ridanciano di Alessandro Borghese: “Ho trovato una seppia a Capri” (seppia, fior di latte, pomodoro e basilico).

A qualcuno diverte? A me fa venire il fior di latte alle ginocchia. Un amico mi parla bene del ristorante Manna di Milano che però è tutto un lazzo e un ammicco: un piatto di paccheri al pomodoro si chiama “Banalissimo”, un dolce a base d’uva si chiama “Senza volpe”… Anziché farmi ridere, Manna mi allarma: siccome ogni arguzia tende al nichilismo, non sarà che anche lì brigano per sbattermi in galera?

 

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  • Camillo Langone
  • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).