Mercati aperti per sfamare il mondo
La stagione della pandemia ci insegna che le politiche protezionistiche non aiutano ad affrontare le sfide alimentari del futuro: la popolazione in crescita, la dieta alimentare che cambia. La necessità di una globalizzazione temperata
Che cosa ci insegna la pandemia a proposito di sicurezza alimentare? Quali rischi abbiamo corso nei periodi più duri del lockdown? E quali conseguenze hanno prodotto i tentativi neo-protezionistici di alcuni governi? Dazi e nuove barriere difendono davvero i sistemi locali? Sono domande che è bene porsi per capire quello che è accaduto anche con l’emergenza sanitaria e per comprendere lo scenario che abbiamo di fronte.
Per abbozzare qualche risposta, occorre però fare un passo indietro. Nel 2018 l’Amministrazione americana guidata da Donald Trump inaugura la stagione dell’“America First” con la guerra dei dazi, in particolare nei confronti di varie merci provenienti dalla Cina. In risposta, il governo di Pechino decide, fra le altre azioni, un dazio del 25 per cento sulla soia statunitense, indispensabile per il sostentamento degli animali da allevamento. In un anno, il giro d’affari degli scambi di soia tra Usa e Cina crolla da 12 a 2 miliardi di dollari. In questo scenario, per compensare il crollo delle importazioni di soia dagli Usa, alla Cina non rimaneva che un’unica alternativa: rivolgersi al secondo produttore mondiale dopo gli Usa, il Brasile.
Sostituire interamente la soia made in Usa con quella made in Brasil, mantenendo inalterato il numero degli ettari coltivati, avrebbe però costretto la Cina ad accaparrarsi tutta la soia prodotta dai carioca; opzione, questa, di fatto non percorribile visto che il gigante sudamericano è a sua volta un grande divoratore di soia. Quanto alla possibilità per il Brasile di aumentare le terre coltivate a soia per soddisfare in proprio l’intera domanda cinese, ciò avrebbe comportato altri 8 milioni di ettari d’Amazzonia disboscati, in una situazione già molto compromessa e preoccupante per il grande polmone verde.
Ma anche per gli americani le criticità furono altrettanto evidenti. Ben metà della produzione agricola Usa, circa il 10 per cento dell’export complessivo, prende infatti la via per Pechino. Così, per gestire il calo verticale dei volumi d’esportazioni verso la Cina conseguenza dell’approccio protezionistico di Trump, nella primavera 2019 l’Amministrazione Usa fu costretta a varare un maxi piano da 16 miliardi di dollari a favore del mondo agricolo. Di fatto, ogni dollaro incassato con i dazi all’import, pagati per la grande parte dagli stessi importatori americani, fu speso per interventi d’aiuto all’agricoltura.
Dunque, un gioco lose-lose assai pericoloso e non è certo un caso se dopo due anni di tensioni, nel gennaio 2020, Usa e Cina siglano a Washington la tregua. Ottantasei pagine nelle quali, punto per punto, si elencano i reciproci impegni per un nuovo corso delle relazioni commerciali, dove l’America s’impegna, peraltro, a non aumentare dazi su 162 miliardi di dollari di esportazioni cinesi e a dimezzare i dazi già operativi per altri 120 miliardi di dollari.
Ebbene, ricordare oggi quella vicenda credo aiuti a inquadrare meglio il nuovo contesto innescato dalla pandemia, con particolare riferimento ai mercati delle materie prime agricole.
Per quanto temporalmente assai vicina, la guerra dei dazi si collocava, infatti, in uno scenario di crisi per così dire “classico” e storicamente “sperimentato” di tensioni commerciali, assai diverso da quello odierno per molti aspetti inedito, figlio della diffusione planetaria del Covid-19.
Là, i dazi furono la risposta sbagliata a una situazione, a onore del vero, parimenti critica e non più sostenibile di globalizzazione senza regole dell’economia, con profondi squilibri sociali e con impatti pesantissimi sulle condizioni ambientali. L’imposizione di barriere doganali mostrò, infatti, la propria intrinseca nocività nell’ambito di economie fortemente interdipendenti, basate ormai su quel principio di deterrenza reciproca – l’antico “simul stabunt, simul cadent” – venutosi a creare anche in ambito economico e non solo militare il quale ha comunque contribuito a garantire al mondo nel suo complesso, oltre che il più lungo periodo di pace, anche l’uscita dalla povertà e dalla fame a più di un terzo dei suoi abitanti (garantendo una dieta più nutriente e variegata a due miliardi e mezzo di individui in più).
Il punto nodale sta però nel fatto che questa guerra commerciale si svolgeva in un contesto non di scarsità di risorse e di beni e i dazi s’interponevano alla libera circolazione delle materie prime, creando disequilibri fra domanda e offerta globali, che avrebbero trovato invece reciproca soddisfazione in situazione di free trade. In altre parole, era la volontaria imposizione di dazi a provocare storture nel mercato degli approvvigionamenti delle derrate agricole, non la presenza di strozzature negli approvvigionamenti a necessitare l’imposizione di dazi.
A quell’epoca, la guerra dei dazi era dunque principalmente motivata da ragioni di riequilibrio commerciale e non anche (se non in minima parte e per necessità di propaganda) da questioni attinenti alla sicurezza nazionale.
Con il coronavirus ci siamo invece accorti che il commercio mondiale non è un rubinetto sempre aperto e che i guasti di quel rubinetto possono impattare direttamente sull’ordine pubblico e sulla sicurezza nazionale degli stati.
E se così è, si capisce allora come a maggior ragione in situazioni di scarsità di beni di primaria necessità, parlare di dazi sulle importazioni sia argomento del tutto fuori contesto.
In situazioni di crisi e di scarsità, logica vorrebbe non già l’isolamento e l’introduzione di barriere alla circolazione delle merci, bensì passi in avanti dei singoli stati nel migliorare la cooperazione internazionale, creando standard comuni in grado di rafforzare le regole di governance transnazionali.
Ma per quanto si voglia e si possa incrementare la cooperazione internazionale, la scarsità rimane pur sempre scarsità.
E quando il bisogno s’affaccia, nell’esistenza dei singoli come in quella delle nazioni, ritorna quanto mai d’attualità il vecchio adagio: se cerchi una mano disposta ad aiutarti, la prima che troverai sarà sempre quella alla fine del tuo braccio.
Si spiega così il fatto che durante la fase più acuta della pandemia alcuni paesi tradizionalmente produttori di materie prime agricole abbiano deciso di diminuire le loro esportazioni nel mondo. Il Kazakistan per esempio lo ha fatto con la farina di grano, il Vietnam con il riso, la Russia decidendo settimanalmente di introdurre limiti su alcune produzioni. Nel medio periodo gli effetti si sono riverberati sui prezzi del cibo. Dopo una prima fase di caduta dei prezzi, la curva ha iniziato a salire rapidamente per molti beni agricoli primari come grano, soia, zucchero. Questa situazione è probabile si sia determinata anche in ragione della scelta di alcuni grandi paesi di ricostruire le proprie scorte agricole interne per non correre altri rischi e non è irrilevante anche il pesante incremento sia dei costi che dei tempi del trasporto merci marittimo globale, solo nel 2020 cresciuto del 12 per cento.
Come ha giustamente osservato recentemente anche Marcello Minenna, sarebbe utile ricordarsi l’esperienza del biennio critico 2010-2012 quando, ad esempio, quasi la metà dell’incremento dei prezzi dei mais e un terzo dell’incremento del grano sono dipesi da politiche commerciali di stampo protezionistico.
Ebbene, il coronavirus ha reso evidenti alcuni limiti nei formali impegni multilaterali nel momento dell’emergenza, mettendo anche l’Europa di fronte alla necessità d’interventi strutturali volti sia a correggere in profondità il disegno delle attuali global value chain, che hanno concentrato e allontanato le fonti di approvvigionamento di beni e servizi essenziali, sia a ridurre l’eccessiva dipendenza da paesi terzi con riferimento ai settori di rilevanza strategica per la sicurezza nazionale.
Ricordo qui le conclusioni del Consiglio europeo dell’aprile 2020, là dove per la prima volta si dichiarava che “riveste la massima importanza aumentare l’autonomia strategica dell’Unione e produrre beni essenziali in Europa”.
E cosa c’è di più strategico ed essenziale del cibo? Riguardo al quale, a proposito di scarsità, la pandemia ha acuito e portato in superfice criticità su scala globale da tempo oggetto di attenzione e lavoro da parte di Organizzazioni internazionali come la Fao, che si occupano proprio di alimentazione e agricoltura.
Solo alcuni dati. La crescita della popolazione mondiale (oggi pari a circa 7,5 miliardi di persone) è stimata in circa 75 milioni d’individui ogni anno (l’1 per cento in più l’anno), almeno per i prossimi dieci anni: 750 milioni di nuove bocche da sfamare. Le stime più accreditate parlano inoltre di una popolazione del globo pari ad oltre 9 miliardi nel 2050.
Ma la vera questione non sta solo in ciò ma anche nei miliardi di persone che hanno cambiato e che cambieranno dieta. E l’impatto di questa trasformazione anche sul sistema ambientale.
A livello globale è in atto un trend ormai consolidato di cambiamento delle abitudini alimentari che si traduce nel deciso incremento planetario di diete ad alto valore proteico. Ossia, maggiori consumi di carne, pesce, uova, vegetali, derivati dal latte, la cui curva di crescita è e sarà solo minimamente attutita dalla riduzione in atto degli apporti proteici nelle diete dei consumatori nordamericani ed europei.
In tale scenario, sempre più esposto a elementi perturbativi derivanti dal climate change, quasi tutti gli esperti di agricoltura ritengono che nel prossimo decennio avremo una crescita della produzione globale intorno all’1,5 per cento, a fronte di una crescita nell’ultimo decennio del 2,5-3 per cento. Le terre più fertili sono inoltre già state occupate. Eventuali incrementi non potranno quindi che riguardare terre marginali per loro natura meno produttive.
Veniamo da una fase di grandi incrementi di produttività, che hanno per esempio triplicato la produzione dei cereali in cinquant’anni. Ma sarà molto difficile replicare questa situazione, perché un conto è triplicare la produzione di cereali, ben altra cosa è triplicare quella di carne, la cui moltiplicazione ha peraltro come prima conseguenza proprio la contrazione delle produzioni cerealicole destinate all’alimentazione umana. A ciò si aggiungano gli impatti ambientali, tutt’altro che irrilevanti come sappiamo, e destinati all’insostenibilità senza una immediata e realistica transizione ecologica dei modelli produttivi.
In sintesi, stante gli attuali tassi di crescita della popolazione mondiale, i radicali cambiamenti climatici in atto e la tendenza di quasi la metà del globo a preferire regimi alimentari ad alto valore proteico, anche con le più ottimistiche proiezioni di crescita del pil e della produttività agricola mondiale, ben difficilmente saremo in grado di garantire cibo per tutti.
Da prima della pandemia, e a maggior ragione dopo il Covid-19, il settore agroalimentare s’interroga dunque su come garantire sicurezza alimentare in periodi di ormai endemiche incertezze, prospettiche scarsità e possibili interruzioni nelle supply chain delle derrate agricole, rimanendo nell’ambito di un’economia aperta e di mercato.
Sono anch’io convinto, come spesso sostiene il Foglio, che i virus della globalizzazione, che ci sono e vanno denunciati, non si curino scappando dalla globalizzazione e che i mercati aperti continueranno a essere parte della soluzione e non del problema della sicurezza alimentare.
Manteniamo la fiducia nel mercato globale, ma non ciecamente. Perché i limiti e le storture ci sono ed è necessario correggere la rotta.
Dotarsi di politiche industriali di settore che si prefiggano l’obiettivo, recentemente delineato anche dalla Commissione europea di una “autonomia strategica aperta”, ritengo, per esempio, non abbia nulla a che fare coi dazi e col protezionismo muscolare, ma neanche con visioni acritiche e salvifiche del laissez faire.
Al pari, credo che porre il tema di una diversa disciplina fra la circolazione delle merci e quella dei capitali possa rientrare fra le misure pro e non contro il libero scambio, quando la dinamica di questi diventa non uno stimolo ma un limite ai movimenti free and fair di quelle.
Da questo punto di vista, ritengo in piena sintonia con l’idea di una “autonomia strategica aperta” i recenti provvedimenti di governo e Parlamento che introducono la possibilità di controllare operazioni societarie che possono tradursi in scalate eventualmente ostili o predatorie di prezioso know how, non solo nei settori tradizionali delle infrastrutture critiche e della difesa, ma anche in quelli finanziari, creditizi, assicurativi, di energia, acqua, trasporti, salute, sicurezza alimentare, intelligenza artificiale, robotica, semiconduttori e cybersecurity.
Il mercato, almeno nella sua accezione moderna, non esiste in natura. Esso è una creazione dell’uomo, concepita per servirlo, non per impartirgli ordini.
Mi pare anche abbia poco a che spartire con un’economia libera e a misura d’uomo, la degenerazione della finanza virtuale che ogni giorno sulla base di algoritmi, compra vorticosamente milioni di tonnellate di sementi o di rame che nessuno vorrà mai avere e vende altrettanto compulsivamente milioni di tonnellate di carne, di olio o di lana che nessuno ha mai avuto, né mai avrà.
L’Unione europea ha fra le proprie ragioni costitutive quella del perseguimento di un’economia sociale di mercato. La pandemia ci deve spingere a muovere passi utili proprio verso quella giusta direzione. Ex malo bonum?
Maurizio Martina è vicedirettore generale Fao
(Le opinioni qui espresse sono esclusivamente personali)
Antisemitismo e fornelli