Un anno di cibo estremo /1
L'estasi fotografata al ristorante. Tre antipasti e tre primi
Per mangiare la “zuppa dei Morti” dovete fare prima il segno della croce
Sono un fotografo compulsivo, al ristorante vengo deriso perché faccio foto continuamente e nervosamente, non sono mai soddisfatto siccome oltre che compulsivo sono scarso, sfiduciato, incontentabile, la luce non mi piace, il telefono fa le bizze, la tovaglia fa delle pieghe, se non c’è la tovaglia c’è la tovaglietta che è macchiata (l’ho macchiata io col vino, chiaro), se non c’è la tovaglietta c’è direttamente il legno con venature magari sgradite, e in ogni caso spuntano briciole, poi l’acqua minerale è dozzinale e va tagliata, i clienti del tavolo sullo sfondo sono vestiti male… Però grazie a tutto questo lavorio all’apparenza insensato oggi mi ritrovo sullo schermo dodici mesi di cibo estremo, un archivio di foto dal quale distillare il meglio per l’amico lettore, mon semblable, mon frère.
Un fratello che subito degrado a fratellastro se di “cibo estremo” osa chiedermi l’accezione: dovrebbe arrivarci da solo, dovrebbe non farmi fare sforzi, dovrebbe accettare l’ipse dixit. Se insiste mi caverò per un minuto dall’accidia in cui sono solito vegetare e sbuffando scriverò: chiamo “cibo estremo” un cibo che rappresenti all’estremo la mia cultura o il mio territorio (ammesso siano cose diverse). Un cibo che, guarda caso, spesso è estremamente raro o estremamente proibito (se non dallo stato, dal sentire comune). Il contrario delle penne rigate e della tagliata, per intenderci e sbrigarci.
Tre antipasti
Comincio dal Veneto Felice e dunque dalle “moeche fritte col pien” che ho appena mangiato al ristorante Da Riccardo di Carrè, sotto l’altopiano di Asiago e tuttavia non lontano dalla laguna da cui provengono questi granchietti molli, acchiappati a tradimento nel momento della muta, quindi immersi nell’uovo sbattuto e gettati in padella per la gioia di noi gastrosadici. Proseguo per le Marche Molteplici dove al ristorante Andreina di Loreto ho scoperto la “cipolla interrata”, un virtuosismo di Errico Recanati che sulle prime poteva sembrare arte concettuale, con quanto di sterile e saccente ne consegue, ma che poi si è rivelata un’arguzia marinista. Giusto: è del cuoco il fin la meraviglia… Infine dalla Campania Felix (ancora felicità, ancora edonismo italiano) mi è giunta la più eccitante mozzarella di bufala, la più provocante treccia di bufala: stupende consistenze e forme latto-erotiche dal caseificio Ponte a Mare di Castel Volturno.
Tre primi
Lo sfarzo, lo spettacolo, la sostanza del “sorbir d’agnoli” dell’Ambasciata di Villa Bartolomea, gran teatro della cucina gonzaghesco-padana, equidistante da Mantova, Verona e Ferrara. La sfoglia degli agnoli è ancora migliore di quella che il medesimo Romano Tamani ammanniva nel vecchio ristorante di Quistello, e non dico altro. La “zuppa dei Morti” (fagioli dall’occhio, salamini e cotenne) mangiata ovviamente il 2 novembre nella trattoria Da Bassano a Madignano, diocesi di Crema, provincia di Cremona. Bassano Vailati, eroico celebrante di una cucina lombarda senza compromessi, appunto estrema, ci spiega che prima bisogna fare il segno della croce e dopo, col cucchiaio, vanno tagliati i salamini teneri in tre pezzi. Eseguiamo il rito compunti. Concludo la trinità dei primi piatti datati 2021 cadendo in estasi di fronte agli “stringhetti con crema d’uovo di Tenuta Saiano cotto a bassa temperatura e formaggio di fossa, cipolla dell’acqua di Santarcangelo e goletta”. Li ho mangiati alla Sangiovesa di Santarcangelo di Romagna, tempio della cucina romagnola e museo della pittura romagnola, sotto un quadro di Guido Cagnacci (non una riproduzione: l’originale!) avente come soggetto una Maddalena pentita che mette voglia di commettere peccati più che di pentirsi.