Un anno di cibo estremo
Apprezzare il fegato è un segno di grande indipendenza intellettuale
In Nord America l'interiora è detestata: ottimo motivo perapprezzarla e ordinarla al tavolo. Con i dolci, invece, i cuochi s'avventurano, meglio lasciar perdere
Riguardando la prima puntata di “Un anno di cibo estremo” mi accorgo che mancano le due capitali italiane. Continueranno a mancare: a Milano mi interessa solo la Trattoria Trippa e la mia dignità mi impedisce di accettare il sistema di prenotazione della Trattoria Trippa (Carlotta Girola su Dissapore lo ha definito “Squid Game al massacro”), mentre Roma è la città dello Stato e delle Tasse e a pensarci mi passa l’appetito. Dunque proseguo nel riassunto di dodici mesi di cibo estremo con tre secondi piatti della mia amata provincia.
Il “Fegato di manzo e fegato di coniglio alla veneziana con polenta” della Osteria Madonnetta di Marostica è un vertice gastronomico (vedo la foto e mi ritorna l’acquolina in bocca), mistico (la tovaglietta ha l’effigie della Madonna eponima), regionalistico (siamo nel cuore del Veneto Felice) e infine antropologico: secondo Leon Rappoport “in Nord America il cibo che più gente detesta è il fegato” e allora apprezzare il fegato è un segno di indipendenza intellettuale.
Poi la “Trippa alla parmigiana” (per capirne il segreto mi sono segnato i molti ingredienti: trippa di manzo, polpa di pomodoro, bacche di ginepro, cipolla, aglio, carote, sedano, prezzemolo, rosmarino, salvia) divorata giustamente di sabato e giustamente in provincia di Parma, all’Osteria degli Argini di Mamiano.
Il “Collo d’oca ripieno”, doppiamente estremo perché contiene, fra l’altro, il prelibato fegato del pennuto, affettato in casa l’11 novembre per onorare San Martino (che vuole “oca, castagne e vino”) e proveniente dallo specializzato allevamento di Michele Littamè, Sant’Urbano (Padova).
I dolci bisognerebbe evitarli, vuoi per la salute vuoi perché i ristoranti a questo punto calano se non crollano, in cucina è il momento della velleità, coi dolci i cuochi si scatenano, si avventurano, affondano, i nomi tendono a farsi più fastidiosi (le innumerevoli, stucchevoli variazioni di tiramisù), la forma dei piatti più incongrua, la decorazione degli stessi più orpellosa e confusa. Dunque nessun dolce di ristorante: se non c’è il carrello dei formaggi (non c’è quasi mai) al ristorante dopo il secondo bisogna resistere alle tentazioni e chiedere il caffè. Mi limito quindi a tre dolci ricordi piuttosto privati, però accessibili a tutti. Un dolce commissionato: il bussilan del DessertLab di Parma. Il bussilan è un ciambellone emiliano estinto, sterminato dal panettone, ho chiesto alla pasticciera di resuscitarlo, lei ha recuperato la ricetta in qualche vecchio libro e il risultato ha superato le previsioni: pasticceria vernacolare e trasmissione culturale! Un dolce confezionato: il Pinguino gustato alla gelateria Pepino, a un tavolino di piazza Carignano. E’ il primo gelato su stecco della storia, ricoperto di cioccolato. Cosa ci facevo a Torino? Faccio tante di quelle cose, non ricordo. E perché mi trovavo da Pepino? Perché passeggiando mi sovvenne Guido Ceronetti che in “Albergo Italia” scrive: “A Torino [nel 1937] successe un fatto imponente di cui tutti parlavano: la ben nota Gelateria Pepino lanciò il Pinguino, che costava una lira”. Mi vanto sempre di essere l’unico critico gastronomico dotato di cinque sensi, circondato da mangioni handicappati che a malapena dispongono del gusto, completamente ciechi. E invece di sensi ne ho addirittura sei e il sesto è quello letterario... Infine un dolce nettare, il miele di purissimo limone che a fine inverno mi spedì Andrea Paternoster, apicoltore sommo (Mieli Thun) morto sull’autostrada del Brennero a inizio primavera. Una follia produttiva, il miele calabrese di un apicoltore trentino dedito all’estremismo qualitativo. Rimpiango Paternoster e provo a essere estremo quanto lui.