L'estate del vino fluido - 2
Godersi un primitivo ricavato dai grappoli di germogli. A dispetto di Desiati
"Prendemmo a bere dalla damigiana" racconta lo scrittore pugliese nei suoi romanzi. Invece il Mammamè, a 29 chilometri da Castellana Grotte, va goduto in un cristallo tra le vigne virtuose della Murgia
Il colpevole è Mario Desiati. La seconda puntata del viaggio estivo nel vino fluido pensavo dovesse riguardare i frizzanti (contro il dualismo fermi/spumanti) ma per colpa della vittoria allo Strega dell’antipugliese Desiati sono costretto ad anticipare l’articolo sul rosa pugliese. Desiati è un caso emblematico di fluidità esteriore, tutta trucco, e rigidità sostanziale, un’ingessatura di convenzioni. Sfogliando i suoi libri mi sono accorto di come questo scrittore meridionale si impegni a perpetuare lo stereotipo del vino meridionale: superalcolico, greve, stordente. Se in “Spatriati” definisce Primitivo e Negroamaro “vini da offuscamento della ragione”, in “Foto di classe” parla di un vino che “raschia il palato”. Sono espressioni che sarebbero piaciute al razzista lombardo Gianni Brera ma che l’equanime emiliano Paolo Monelli avrebbe considerato obsolete già nel 1935, quando confessò l’errore di aver considerato la Puglia “solo come un’enorme cantina da taglio”. Otto anni dopo cominciò l’epopea del rosa salentino, quanto di meno offuscante e raschiante, insomma Desiati porta la pochette all’ultimo grido ma è rimasto al vino pugliese di un secolo fa. O ai bottiglioni che si trovano nello scaffale basso del supermercato, senonché i bottiglioni sono tremendi in Puglia come in Piemonte, non rappresentano le rispettive regioni, rappresentano l’universale meschinità. Proseguendo nella ricerca mi accorgo che a parlare di bottiglioni ho peccato di ottimismo. In un libro precedente, “Ternitti”, leggo: “Nei paesi bastava un tavolo, un mazzo di carte e una damigiana di vino”. E nel “Paese delle spose infelici” vedo che Desiati insiste: “Prendemmo a bere dalla damigiana…”.
Ringrazio il Cielo di trovarmi sulla terrazza di Palazzo Ognissanti, da dove mi godo lo spettacolo del porto di Trani. Non sto bevendo dalla damigiana ma da un cristallo in cui è stato versato il Mammamè (primitivo più aleatico) di Pierfabio Mastronardi, Castellana Grotte, 29 chilometri dalla Martina Franca del Desiati esterofilo che conosce i locali perversi di Berlino molto meglio delle vigne virtuose della Murgia. Sempre dalla Murgia, Gioia del Colle, proviene il Polvanera bevuto l’altro giorno in tavolata famigliare, rarissimo rosa in magnum, contenitore che all’occhio profano potrebbe apparire proprio un bottiglione con la differenza che la magnum contiene sempre, di una cantina, il vino migliore. Questo Polvanera fa solo 12 gradi, meno di tantissimi vini settentrionali: il lettore di Desiati, il bevitore ancorato all’idea ricevuta del vino pugliese pesante, veda di aggiornarsi. A Maglie ho bevuto un rosa di Tuglie, con soddisfazione, il Cerasa (100 per cento negroamaro) di Michele Calò, e dopo un altro Calò, Damiano di Rosa del Golfo, mi ha parlato entusiasta del suo nuovo rosa appartenente alla categoria “pool wine”, dal crescente successo commerciale. Rosa pallidi che io non richiedo, preferisco il color cerasuolo carico e polposo, ma se sostituiranno lo spritz ben vengano. Sebastiano Di Corato dell’azienda Rivera mi racconta che dal 2019 a oggi il suo Pungirosa ha raddoppiato le vendite e prosegue la sua corsa: prospettive rosee per il vino rosa, l’ottuso dualismo bianco/rosso sembra avere i giorni contati… Infine me la spasso col Settepunti di Luca Attanasio, prima con le percoche e poi col ghiaccio, edonismo estivo assoluto. E’ un primitivo rosa simpaticamente tappato (a corona) ed etichettato (tipo coccinella), ricavato dai grappoli delle femminelle. Il dettaglio delle femminelle, che sono germogli per così dire particolari, mi riporta a una fluidità non soltanto enologica, mentre il vino scende freddo e fluidissimo nel gargarozzo.