L'estate del vino fluido/4
Contro il dualismo legno/acciaio ecco la terza via dell'anfora, ben più erotica
In Toscana la bella scelta della terracotta per conservare il vino. Materiale che attira e si fa abbracciare
Volevo fare tutta una puntata contro un poeta che si è permesso di scrivermi per lodare un Sauvignon. Che già essere un poeta è una colpa mica da poco. Ma se per giunta mi vieni a elogiare un alloctono puzzolente io ti cancello da tutto: “Interdetto / maledetto / fuggi via dal mio cospetto”, per citare un poeta che invece di vino qualcosa ne capiva, Francesco Redi. Il Redi era toscano e da nemico del bere binario mi dovrebbe stare antipatico, siccome in Italia un dualismo potatorio consiste nella formula Toscana versus Piemonte, contrapposizione stantia e al contempo vivissima nelle menti dei bevitori sempliciotti. Eppure no, riconosco il Redi come maestro per via dell’immortale definizione della birra: “Squallida cervogia”. La uso spesso, come qualche amico lettore ricorderà, e ogni volta scateno gli insulti e i rutti dei birromani (non so come sia possibile ma esiste gente che si vanta di bere birra e che addirittura fonda la propria identità sul consumo di siffatta, ignobile bevanda). Riconosco il toscano Redi come maestro e la stucchevolezza della toscanità enologica non così compatta, ogni tanto bisogna ricordare che le responsabilità sono individuali, che non esiste una maxicantina regionale ma tante cantine particolari.
E così in Toscana oltre a fiumi di vini d’imitazione (Sassicaia, Ornellaia, aia-aia vari) e d’esportazione (i succitati e il Montalcino e il Montepulciano e il Chianti, qualsiasi liquido tale parola denomini), sussiste il vino in anfora di Luca Sanjust, Petrolo, Mercatale Valdarno. Contro il dualismo legno/acciaio ecco la terza via dell’anfora che in realtà è un reticolo di percorsi. Piuttosto complicato, come tutto ciò che riguarda il vino. Tanto per cominciare la complicazione lessicale: queste anfore non sono anfore bensì giare (più tozze e capienti, e senza manici) ma siccome tutti dicono anfore, ed è comunque terracotta, diciamo pure anfore. Poi la complicazione dell’interno: non rivestite? Rivestite? Di cera d’api? Di resina? Infine la complicazione della collocazione: interrate (come da millenni in Georgia) o fuori terra? Per dire cose semplici dirò che il vino in anfora non sa di terracotta, a differenza del vino in legno che rischia sempre di sapere di legno.
E che le anfore sono molto più belle dei serbatoi d’acciaio, molto più erotiche. Formose come Veneri primitive, attirano la mano: qualcuno abbraccia gli alberi, io vorrei abbracciare giare. Resta inteso che se dentro l’anfora versi del Sauvignon, dall’anfora estrarrai del Sauvignon, non altro, mentre se invece versi, come fa Sanjust, un grande Sangiovese, estrarrai il Bòggina A, degno di Orazio: “O anfora benigna / tu soavemente pungoli l’ingegno…”. Nel Valdarno Superiore ci sono appena stato mentre l’albana romagnola in anfora (di Villa Papiano, Modigliana e di Tre Monti, Imola) me la sto godendo a casa, così come il Vient’e Terra dei Cacciagalli (Teano), dalle lusinghe innumerevoli: oltre all’anfora il vernacolo, l’autoctonia (uva piedirosso), la fluida cromia (è rosa o cosa?), il frizzante da rifermentazione, il tappo a corona… Concludo con Johnson Righeira che quando l’estate finirà davvero, e con l’estate il suo tour, mi aspetta nella gozzaniana Agliè per assaggiare il suo Erbaluce di Caluso. Che sta affinando, chi se lo aspettava da un cantante elettronico e futuristico, in ancestrale anfora.