Il mio vino libero. Una rassegna di bottiglie per le vostre tavolate natalizie
Tutte le etichette sono rigorosamente svincolate dai livellamenti Doc, Docg, Igt e, va da sé, non Bio. Perché i burocrati che mettono etichette non amano i vigneti. Auguri, e cin-cin!
Il massimo enologo di tutti i tempi, colui che trasformò l’acqua in vino, ed era vino buono, ha detto: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”. Dunque sulle etichette io voglio leggere “Vino rosso”, “Vino bianco”, “Vino rosa”, “Vino dolce” e nient’altro. Il di più, le denominazioni, le certificazioni, so bene da chi provengono e cosa costano. Approssimandosi le feste, sacre e profane, ho stilato per lo scaffale mio e dell’amico lettore una lista certo non completa ma nemmeno troppo parziale dei non tanti vini liberi reperibili in commercio, e quando dico liberi dico vini non Doc e non Docg, possibilmente nemmeno Igt e nemmeno Bio (troverete qualche eccezione perché bisogna liberarsi anche dallo zelo, dal perfettismo, dalla tentazione di scrivere manifesti e fondare sette).
Non sono vini fuorilegge, che pure da qualche parte esistono ma che mi guarderò dal citare, sono semplicemente, semplicemente si fa per dire, vini di vignaioli dalla forte personalità, insofferenti ai disciplinari livellanti. Sono vini mediamente migliori dei vini allineati e coperti dietro ai vari consorzi perché sono vini nudi, senza involucro burocratico, senza lo status offerto dalle denominazioni illustri, esche irresistibili per bevitori gregari. I produttori indipendenti non possono adagiarsi, non possono essere bravi come gli altri: devono essere più bravi degli altri. Io li amo perché non fanno mai vini noiosi e perché, parafrasando Simone Weil, “chi è liberato, libera”.
BIANCHI
Fermentino, La Carreccia, Luni di Ortonovo
Pompelmo, pesca, sale, è ciò che avverto nel primo vino ligure rifermentato in bottiglia della mia vita, ed è un bel sentire e una promessa di mare. Tornerà l’estate, torneranno le canzoni dell’estate (a proposito, quali brani ascoltare bevendo i vini della presente pagina? “Born to be wild” degli Steppenwolf, “Il mio canto libero” di Lucio Battisti, “Libertango” di Astor Piazzolla, “Freelove” dei Depeche Mode, “Rock and roll” di Jerry Lee Lewis…). Ortonovo fu uno dei paesi dell’anarchia, come racconta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi in un vecchio libro dimenticato, e sarebbe facile etichettare questo vino, eccentrico e spumeggiante, come anarchico. Ma è parola che mi piace poco, ne hanno fatto un abuso tale che non significa più nulla: per esempio, Francesco Guccini si definisce anarchico e poi dichiara di votare Pd, il partito dello stato. Io lo chiamo vino libero il Fermentino, vermentino (e altre uve) non Doc: rende meglio l’idea, e l’ideale.
Dorona Criterio, Mauro Lorenzon, Treporti
“Procedure standardizzate decise da lavoratori di ufficio e comitati si sostituiscono all’azione individuale” ossia al singolo imprenditore: lo scrive Michele Silenzi nel suo “L’uomo indifferenziato” (Liberilibri). La standardizzazione avanza in ogni campo, ovviamente anche nel vino. Grazie a Dioniso, o forse in questo caso dovrei dire grazie a San Marco, esistono eroi della resistenza enologica come Mauro Lorenzon, oste veneziano e venetofono (“negosian de vin bon”) che da uve autoctone raccolte sull’isola di Saccagnana, da qualche parte in Laguna, ricava un bianco frizzante, rifermentato in bottiglia, che non è Doc, non è Docg, non è Igt, non è Bio. E’ Venessia in bottiglia, la Venezia agricola di cui nessun turista conosce l’esistenza, un vino differenziato prodotto da un uomo differenziato (guardate in rete i suoi panciotti!) per la gioia di bevitori differenziati.
Pedevendo, Firmino Miotti, Breganze
Un altro bianco veneto, come mai? Un po’ perché in Veneto i bianchi vengono meglio che altrove (chiaramente non sto parlando di Prosecco). Un po’ perché in Veneto i vignaioli sono più indipendenti (indipendentisti?) che altrove: dopo Lorenzon e Miotti potrei elogiare Giovanni Menti che sta a Gambellara ma tre bianchi veneti sarebbero troppi anche per un venetista come me. A chi obiettasse che nemmeno tre rondini fanno primavera farei notare che esistono intere regioni del centro-sud compattamente prone al conformismo enologico, senza una sola rondine… Vengo alla Pedevenda, un’uva che se non è nata nella vigna breganzese di Firmino poco ci manca, e comunque lui e la figlia Franca oggi ne sono custodi e quasi esclusivi produttori. Dalla Pedevenda sortisce il Pedevendo che annovero fra le migliori bevute degli ultimi anni, e sappiate che io sui bianchi sono molto più esigente che sui rossi. Se il rosso medio posso anche berlo, in presenza di amici o di salsicce, un bianco medio mi rifiuto proprio, bevetevelo voi. Le eventuali mancanze di un rosso puoi riempirle con la materia, col corpo, le eventuali mancanze di un bianco sono irrimediabili e in bocca ti ritrovi il vuoto. Il frizzante Pedevendo, senza solfiti aggiunti e tuttavia miracolosamente fragrante, di rimedi non ha bisogno. E nemmeno Firmino Miotti, alpino, cacciatore, autarca, monumento del Veneto patriarcale, ben descritto dalla frase che rivolse alla moglie e che venne riportata in un piccolo grande libro di Virgilio Scapin: “Tasi fémena se no te sbaro con la s-ciopa”. Forse è meglio non tradurla, in ogni modo si intuisce l’accoglienza che si deve aspettare chi tentasse di condizionarlo.
ROSA
Zero Infinito Cremisi, Pojer e Sandri, Faedo
Su questa pagina sento aleggiare una domanda: con quale bottiglia accogliere l’anno nuovo? A liberare dalla tentazione degli chardonnay addizionati (champagne, spumanti vari) propongo lo Zero Infinito Cremisi, frizzante (non spumante!) che fin dal nome si manifesta vergine, puro. Esente da additivi così come da consorzi (fuori Doc ovvero fuoriclasse). Il metodo è quello che spesso definiscono ancestrale ma i nostri avi un colore così luminoso e un naso così fragoloso se li sognavano. Per tale risultato, molto evidentemente un vertice mondiale dell’enologia, dell’agronomia e della tecnologia di cantina, ci volevano le macchine inventate lassù in Trentino dal vulcanico Mauro Pojer insieme allo storico socio Fiorentino Sandri. Ogni elemento del nome ha solide ragioni tecniche ma non è il momento di approfondimenti specialistici, io qui ne faccio una formula per le feste che arrivano: Zero problemi, Infinito augurio, Cremisi amore.
Spoma? Angol d’Amig, Modena
Me lo ricordo bene, me lo ricorderò per sempre, Maurizio Lupi che ghignava commentando l’ultima barzelletta della politica: il Lambrusco regalato da Berlusconi a Putin. Il deputato milanese non stava più nella pelle, voleva assolutamente farci sapere che lui beveva ben altro: “Con tutto il rispetto per il Lambrusco”. Lo disprezzai tantissimo quest’uomo che si permetteva di disprezzare pubblicamente il più italiano dei vini: il Lambrusco deriva dalla vitis silvestris presente in Val Padana da prima dell’uomo, al contrario degli altri vini che derivano da vitigni magari definiti autoctoni e però giunti dall’oriente, il più delle volte portati dai Greci. Che si permetteva di disprezzare pubblicamente il più versatile dei vini: un Lambrusco di Sorbara come lo “Spoma?” di Angol d’Amig è perfetto sia con le ostriche sia con lo zampone (parlo con cognizione di causa, sono due dei miei cibi preferiti). Che si permetteva di disprezzare pubblicamente il più vivo dei vini, qualora rifermentato in bottiglia senza filtraggi mortiferi, senza asportazione dei lieviti, ed è il caso radioso di tutti i Lambruschi del supervernacolare supermodenese supereroico (niente Doc sulle sue etichette) Marco Lanzotti di Angol d’Amig. Chissà che vini morti beve Maurizio Lupi, ho pensato. Capace che beve vini in barrique.
ROSSI
Mimmo, Le Piane, Boca
L’azienda Le Piane, fra i boschi dell’alta collina novarese, nei pressi del folle Santuario progettato dall’architetto Antonelli, produce ottimi vini a denominazione e però dell’intera gamma io preferisco questo fuori Doc, “vino rosso” dedicato a un vecchio collaboratore. Un assemblaggio nebbiolo/croatina/vespolina e già i nomi delle uve sono un piacere, una bucolica poesia. Dei boschi che circondano le vigne ha il balsamico sentore, io consiglio di abbinarlo a formaggi ugualmente fuori consorzio e penso ai migliori grana né parmigiani né padani, che so, al Gran Moravia, al Lodigiano Zucchelli, al Reggianello 12 mesi, al Formaggio delle Vacche Rosse 24 mesi… Perché come diceva Flaiano “la libertà va tenuta in continua riparazione”. Anche a tavola. Innanzitutto a tavola.
Implicito, Vigneti Massa, Monleale
L’ho detto e lo ripeto: a mia scienza il vino più libero d’Italia è Implicito.
Ricavato da un uvaggio così immediatamente piemontese e tuttavia non comune nemmeno in Piemonte (barbera+croatina+freisa), colloco questo rosso in cima al podio dell’enologia libertaria per almeno sei buoni motivi. Perché è facile (a detta dello stesso produttore, il campione di indipendenza Walter Massa): mentre i vini difficili richiedono sforzi interpretativi, anzi li impongono. Perché è economico (sui siti di e-commerce lo vedo a 13/15 euri): libera dal pensiero dell’esborso, lo compri senza pensarci due volte. Perché ha il tappo a vite: libera dal bisogno di un cavatappi, che in molte case non si sa mai in fondo a quale cassetto sia finito, e dai patemi relativi al sughero (avrà ceduto sentore al vino? Uscirà facilmente? Si sbriciolerà?). Perché non è Docg-Doc-Igt-Bio: Implicito non vanta lauree, diplomi, patenti, in etichetta viene fieramente definito “Vino rosso d’Italia” e ne ricavo che per metterlo in commercio Walter Massa non ha dovuto piegarsi oltremodo al Leviatano e alla sua legione di aguzzini. Perché la bottiglia è da litro: il formato standard, 75 cl, si svuota troppo presto e subito nella tavolata comincia il surplace, mentre col litro ti senti libero di versare e versarti… Perché è eretico rispetto al dominante, ottuso dogma ambientalista, visto che in etichetta viene dichiarato con spavalderia: “Grazie all’ingegno umano CONTIENE SOLFITI”.
Rosso Nicolini, Nicolini, Muggia
Ecco un caso di scuola di forte personalità: un vino che si chiama col cognome del produttore e che per il resto è definito basicamente “Vino rosso”. Altro che Docg! E’ il signor Nicolini a garantire! Uno che ci mette addirittura il nome! Perché dovrei credere a un comitato e non a lui? Da chi è composto il comitato? Vattelapesca. Dove stanno di casa i suoi membri? E chi lo sa. Mentre Giorgio Nicolini sta a Muggia in località Fontanella 26/a, su internet trovate pure il numero di cellulare, se il suo vino da insolito vitigno istriano (sebbene ancora in Italia, siamo già in Istria) putacaso non vi piacesse potreste lamentarvi direttamente con lui. Vale a dire con un vignaiolo che, parlando di trattamenti antiparassitari, afferma di evitare l’uso di determinati prodotti chimici “se proprio non indispensabile per la sopravvivenza della pianta”. In un mondo di ambientalomani contaballe, un uomo che dice la verità, un prode.
Bag – Vino Rosso, Cataldi Madonna, Ofena
Luigi Cataldi Madonna, barone-vignaiolo-filosofo abruzzese, dimostrò la sua indipendenza quando per la prima volta nella storia del vino imbottigliò del Pecorino etichettandolo come tale. Il gregge dei colleghi ridacchiava: un vino dal nome di formaggio non si venderà mai! Abbiamo visto… Adesso insieme alla figlia Giulia ribadisce il concetto molto lockiano di autodeterminazione mettendo del rosso nel “bag in box” (pratica sacca di alluminio in scatola di cartone) sempre firmandolo Cataldi Madonna perché non c’è niente da nascondere, è vino buono. Di solito non parlo di soldi ma per la seconda volta nell’arco di una pagina devo farlo: sul sito dell’azienda il bag da cinque litri costa 18,50 euri ossia 3,70 al litro. Qualità aristocratica dal prezzo popolare per un vino feriale ma pure festivo nel senso di banchetti e rinfreschi, di norma rovinati da vini imbevibili, ignobili, in bottiglia di vetro per fingere una qualità che non c’è, insomma per infinocchiare il prossimo.
DOLCI E LIQUOROSI
Teranov Liker (Terrano liquoroso), Kukanja, Komen (Comeno)
“Ah!, la Qualità Totale e le sue certificazioni internazionali! Pensare che qualcuno ci crede davvero, dimenticando che oggi anche la qualità, come tutto, si compra e si vende, mi fa molto ridere”. Sono parole del mai sufficientemente compianto Vitaliano Trevisan, estratte da “Works” (Einaudi), monumento della letteratura italiana del Ventunesimo secolo. Al grande scrittore veneto dedico questo rarissimo terrano liquoroso sulla cui qualità garantisco personalmente io (nessuna certificazione disponibile, né internazionale né nazionale) e sulla cui etichetta, scritta in sloveno, non ho trovato nemmeno la gradazione: più indisciplinato di così…
Michelangiolo Chinato, Calonga, Forlì
“Se respiri non è che vivi”, canta Tutti Fenomeni. Anche nel vino, soprattutto nel vino, non bisogna dare nulla per scontato e dunque: 1) se spendi molto non è che bevi bene, 2) se è Bio non è che è buono, 3) se è Dop, denominazione di origine protetta, non è che sei protetto; 4) se frequenti il corso di sommelier non è che capisci il vino. Potrei andare avanti a lungo però per farla breve chiudo al punto 5: “Se è Chinato non è detto sia Barolo”. Può anche essere, ad esempio, un Sangiovese. E mica un Sangiovese da cooperativa ma quello amorevolmente accudito dalla famiglia Baravelli, azienda Calonga, colline di Romagna. Drogato al punto giusto dal sommo vermuttista, pure lui romagnolo, Baldo Baldinini, e dunque i risultati fra naso e palato sono muschio, sottobosco, cuoio, china, talco, colonia, ambra d’oriente… Da bere dopo il pranzo dell’Epifania insieme ai Re Magi.
San Petrolo, Petrolo, Mercatale Valdarno
Vorrei scrivere una Guida ai Santuari del Vino e assegnare il posto d’onore alla visantaia di Petrolo dove si compie il miracolo del San Petrolo. A differenza dei miracoli canonici, solitamente istantanei, il miracolo enologico che si compie nelle botticelle del nobiluomo Luca Sanjust è lentissimo: occorrono molti anni per fare di un mix di trebbiano e malvasia il liquido cremoso e prodigioso che ogni Natale amo centellinare. Un lungo lasso di tempo che, fra l’altro, spiega il prezzo (no, non ve lo dico). Così come i santi del calendario sono stati spesso ostacolati dalla gerarchia della Chiesa, il vin santo di Petrolo è stato ostacolato dalla gerarchia del Consorzio, perché non rientra nei parametri. Come se fosse una colpa. Ma certo che non rientra nei parametri! Se rientrasse nei parametri sarebbe un vino ordinario. E invece è soprannaturale.
Antisemitismo e fornelli