Troppa esterofilia. Un disciplinare anche per i ristoranti italiani in Italia
Il ministro Lollobrigida contro i piatti pseudo italiani all’estero. Ma forse bisognerebbe iniziare dalle attività delle nostre parti
Prima però ci vorrebbe un disciplinare per i ristoranti italiani in Italia. Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare, vorrebbe mettere in riga la ristorazione italiana o pseudotale all’estero: “Combatteremo ovunque l’italian sounding”. Io comincerei col combattere il foreign sounding, ammesso si scriva così (da vero patriota sono scarso in lingue straniere).
Tutta la vecchia ostinata francofonia nelle carte della nostra ristorazione: amuse-bouche, Gillardeau, foie gras, bourguignonne, ultimamente la salsa verjus che sarebbe poi l’agresto… Tutta la nuova arrembante anglofonia, a partire dall’odioso lime che sarebbe poi la limetta, ma l’ultima volta che ho trovato la parola italiana è stata in un libro di Enrico Brizzi, la penultima nella traduzione di un romanzo di Bukowski: in un ristorante, mai. Col vertice di alienazione linguistica raggiunto dall’ineffabile Bottura che alla Francescana, per 110 euri, serve un secondo denominato “This little piggy went to the market”: il porcellino va al mercato, l’italiano va al macello… Più tutta la dilagante ingredientistica asiatica: yuzu, curry, tofu, kefir, mirin, mungo, galanga, paki-choi che sarebbe poi il cavolo cinese (non vi è bastata la polmonite cinese? Pure il cavolo? Comunque se proprio non riuscite a farne a meno lo trovate da Vittorio a Brusaporto, Bergamo).
Così come il pesce puzza dalla testa, l’alta ristorazione esala esterofilia a cominciare dal tocco, dal cappello. Cosa ci si può aspettare da cuochi che si fanno chiamare chef? La clientela ci mette il suo gregarismo, seguendo ovinamente la Michelin, guida del gourmet e basta la parola. “Facciamo la guida del buongustaio” vorrei dire a Lollobrigida ma devo criticare pure lui perché l’annuncio sovranista lo ha fatto, leggo, al “Care’s on Tour di Norbert Niederkofler”. Dove l’unica parola italiana è brevissima e inessenziale. Per la precisione al “Care’s on Tour – The ethical Chef Days”. Perché il germanofono Niederkofler, organizzatore del raduno, è l’araldo di una cucina moralista, neopuritana, vagamente anticattolica, intrinsecamente anti italiana. L’incontro fra il ministro molto laziale e il cuoco un attimo tedesco suona davvero strano. “Basta con quei locali che si dicono tricolori ma poi utilizzano prodotti stranieri!”. Chissà quale tricolore sventolano lassù a Brunico anzi Bruneck, luogo dell’evento. Che poi questo tricolorismo lo capisco poco, mi perdonino Lollobrigida e Artusi ma la cucina italiana più che nazionale è regionale, più che regionale è provinciale. Trovo stranianti e tristi le linguine di Gragnano, i rombi, i calamaretti, gli scampi serviti da Cannavacciuolo sul lago d’Orta, le capesante e i ricci di mare ammanniti da Enrico Crippa al Piazza Duomo di Alba. Territorio? Quale territorio? (E anche, nel caso di Crippa, vantone del biologico e del biodinamico: sostenibilità? Quale sostenibilità?).
E le cantine? Qui vado a nozze. Non vedo l’ora non di vietare (sono un sovranista liberale) ma di segnalare al pubblico ludibrio i vini in barrique, le bare francesi del vino, i simil-champagne della Franciacorta, i simil-bordeaux di Bolgheri, i vitigni alloctoni tutti iniziando dal piscioso sauvignon, dall’inadatto chardonnay, dall’ambiguo pinot grigio. Il vitigno della sovranità potatoria sia il Lambrusco, l’uva più autoctona che ci sia, presente in Italia ab immemorabili, prima dei Greci, prima ovviamente dei Romani. Certificherei come superpatriottico il ristorante la cui carta dei vini avesse una pagina dedicata al Lambrusco di Sorbara, una al Lambrusco Grasparossa, una al Lambrusco Salamino, una ai Lambruschi Reggiani, una al Lambrusco Maestri, una al Lambrusco Mantovano: Lambruschi d’Italia.