La farina di grillo non è l'Apocalisse in cucina. Parla lo chef Lorenzo Cogo
“Per la ristorazione il momento non è maturo. Gli insetti sono ancora distanti dall’identità della cucina italiana per cui penso che non ci sia il rischio che le farine di grillo ecc. entrino nei ristoranti". La cultura gastronomica italiana, le novità e la lenta abitudine al nuovo in cucina
A sentire le chiacchere al mercato mentre si è in fila per prendere qualche carciofo, un po’ di puntarelle e un mazzo di asparagi, oppure quelle in piazza tra bicchieri di birra e vino, pare che il momento dell’Apocalisse alimentare sia vicino. Orde e orde di grilli, larve, farine d’insetti sembrano essere sul punto di invadere tavole, credenze e frigoriferi.
Non è così. Probabilmente non lo sarà mai, ma chissà. Senz’altro non lo sarà finché un chilo di farina di grillo costa oltre settanta euro al chilo (al dettaglio, qualcosa in meno all’ingrosso). I decreti riguardanti la farina di grillo, locusta migratoria, verme della farina e larva gialla, dicono soltanto che gli alimenti che contengono farina d’insetti – l’apertura alla vendita del cosiddetto “novel food” non è una novità, è entrata in vigore a gennaio 2018 – devono avere un'apposita etichettatura “che specifichi in modo puntuale e visibile quali prodotti hanno derivazione da questi insetti", ha detto il ministro dell'agricoltura Francesco Lollobrigida.
Se uno vorrà mangiare alimenti contenenti insetti lo potrà fare, se invece non gli va continuerà alla maniera di sempre. E continuerà alla maniera di sempre pure al ristorante. “Per la ristorazione il momento non è maturo. Gli insetti sono ancora distanti dall’identità della cucina italiana per cui penso che non ci sia il rischio che le farine di grillo ecc. entrino nei ristoranti, o almeno in quei ristoranti che non vogliono puntare su questi alimenti perché vogliono crearci un business”, dice al Foglio Lorenzo Cogo, chef che ottenne una stella Michelin all'epoca dell'El Coq di Marano vicentino, ora al Dama Restaurant Venezia e alla Trattoria Dal Cogo
“Fare baccano sulle farine d’insetti è abbastanza superfluo. È un prodotto che esiste ed è giusto che trovi il suo collocamento e che venga regolamentato nel modo più corretto e che quindi quando viene utilizzato sia chiaramente e facilmente individuabile”, spiega.
La regolamentazione è una cosa, l’utilizzo è un altro. E soprattutto in Italia ne deve passare di acqua sotto i ponti prima che un alimento diventi normalità, sia accettato come qualcosa se non di nostrano, almeno di consumabile, apprezzabile. “In Italia è sempre stato difficile fare innovazione in cucina, o quantomeno riuscire a farla accettare. È così perché viviamo in un paese con una storia e tradizione culinaria eccellente, che consideriamo difficilmente migliorabile, per questo a volte la ricerca nei piatti è vista con sospetto, come qualcosa che in un modo o nell’altro può quasi rovinare la nostra cucina”, sottolinea Lorenzo Cogo. Se questo è il contesto, un contesto che per anni è sembrato inscalfibile, qualcosa sta leggermente cambiando: “Siamo però in un momento storico nel quale l’apertura alle novità sta piano piano diventando se non una consuetudine, quanto meno una realtà. E questo è positivo, anche perché viviamo in un mondo sempre più globalizzato, dove c’è un continuo confronto tra culture culinarie differenti e un’attenzione maggiore alla loro valorizzazione”.
Gli insetti però sembrano restare fuori da tutto questo. Eppure a pensarci bene, a sentire i vecchi, certi vecchi d’osteria che un po’ te la raccontano e un po’ se la raccontano, c’è stato un tempo gli insetti facevano parte del mondo degli uomini e anzi c’era pure chi se li mangiava. Basta farsi un giro per la campagna veneta, ascoltare i ricordi di chi in una padella di ferro scioglieva il burro e ci friggeva i bachi da seta. E chi l’ha fatto, chi ne ha ricordo, dice che “i iera boni”.
“I bachi da seta erano una parte del sistema economico di certe zone dell’Italia, soprattutto della pianura Padana”, dice Lorenzo Cogo. E non solo una parte del sistema economico, “anche dell’equilibrio dell’ecostistema di questi luoghi: perché i bachi mangiavano le foglie di gelso, i gelsi davano le more, le piante aiutavano la tenuta delle terre e via così. Quando sono spariti, perché non servivano più, c’è stato un cambiamento non solo nel tessuto economico delle zone nelle quali si faceva questo allevamento, ma anche a livello ambientale e culturale: perché senza gli insetti non c’era più nemmeno l’abitudine a rapportarsi con loro. Questo è ciò che andrebbe approfondito”, spiega.
Il rapporto cibo-territorio non è però qualcosa che riguarda il via libera all’utilizzo delle farine di grillo e compagnia. Il contesto è diverso: “Ora si sta normando quello che l’industria chiede che sia legale perché ci vede del business, perché può essere venduto in quanto esiste un mercato potenziale. Ogni autorizzazione prevede infatti un sacco di investimenti e di tempo. Quello che non ci si chiede, non ci si è chiesti quantomeno, è se il mondo degli insetti ha o ha fatto parte nella nostra cultura gastronomica o se ha senso davvero valorizzarlo all’interno di un discorso più ampio di quello del solo utilizzo all’interno nei prodotti”.
Insomma grillo, locusta migratoria, verme della farina e larva gialla vanno bene, perché non fanno male, certo, ma non solo perché non fanno male. Perché è stato considerato conveniente spendere soldi e tempo per renderli commerciabili. Ci sono altri insetti che molto difficilmente potranno arrivare sulle nostre tavole o dispense: “Durante l’allevamento delle api c’è regolarmente il controllo degli alveari. E quando si fa, viene eliminata una parte dei fuchi. Di solito vengono gettati via, eppure sarebbero un alimento ricchissimo di proteine, dolcissimo e molto buono. È un alimento davvero interessante. Noi non lo possiamo utilizzare o proporre perché la legge non lo permette, nonostante sia in pratica certificato biologico almeno quando il miele che viene prodotto è certificato biologico, è incontaminato perché nasce e cresce in uno spazio, l’alveare, mega protetto. Ho cucinato un risotto con i fuchi, l’ho presentato anche a un congresso, ma l’esperimento è finito lì, perché non si può fare”, ci racconta Lorenzo Cogo.
La pajata fino agli anni Cinquanta del Novecento difficilmente usciva da Roma. La si mangiava qui perché l’attività conciaria era elevata e aveva bisogno anche di agnellini da latte. La pajata è l'intestino di un vitello non svezzato, quindi alimentato solo con il latte materno, e questo latte deve essere all’interno dell’interiora quando vengono cucinate. È un piatto che, come diceva il marchese del Grillo a donna Olimpia “che è? È mejo che non t’o dica, mangiali prima che poi te lo dico”. Succede ancora. È buonissimo, ma c’è chi è meglio non sappia cosa sta mangiando.
Non è diverso per gli insetti. “Gli italiani tendono a non fidarsi di quello che non si conosce e se uno non si fida lo critica, vuole stargli alla larga, a volte addirittura lo demonizza. Passerà questo senso di spaesamento” dice Lorenzo Cogo, che continua: “Ciò che è diverso e lontano lo sarà meno, poi diventerà una moda e molti di quelli che ora sono allibiti un giorno finiranno all’aperitivo per mangiarsi patatine coi grilli perché farà figo. Niente di nuovo. Era successo pure con sushi. Appena è arrivato in Italia sembrava che si dovesse morir tutti di anisakiasi. Non è andata così. Il problema è sempre lo stesso: la novità deve inserirsi piano piano nella cultura di un popolo, quando lo fa diventa normalità e nessuno ci pensa più. Ovviamente sempre se questa novità viene apprezzata, è affine ai gusti di una buona parte della popolazione”.
Lui intanto aspetta. “Nella mia cucina potrei considerare gli insetti solo se sono legati al nostro territorio e alla nostra cultura. L’utilizzo di un grillo allevato in batteria in Olanda non mi interessa. Sono alimenti che hanno un loro sapore, una loro consistenza, un loro odore. Serve tempo prima che la cucina e l’alta cucina possano davvero prenderli in considerazione. Al momento non vedo un inserimento nei menu, nemmeno me lo immagino”.