Paradossi culinari
La carne sintetica e l'uso distorto del “principio di precauzione”
L'Autorità europea per la sicurezza alimentare non ha autorizzato l'immissione in commercio di cibi sintetici. Ma allora la norma del governo si basa su un oggetto inesistente
È vero, abbiamo molti problemi molto più seri della “carne sintetica”, ma la decisione del governo di mettere al bando ciò che non esiste sulla base di ragioni che non esistono suscita due preoccupazioni, questa volta sì, concrete. Come ha già spiegato Luciano Capone ieri su queste pagine, al momento l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) non ha autorizzato l’immissione in commercio di alcun prodotto di carne sintetica. Sul finire del 2022, Coldiretti ha lanciato l’allarme (da par suo) sulla possibilità che da inizio 2023 sarebbero arrivate le prime domande di autorizzazione. Si può quindi ritenere che il ministro dell’Agricoltura Lollobrigida sia stato mosso da un eccesso di zelo e abbia giocato d’anticipo. Ma se così fosse, oltre ad avere un oggetto inesistente, la norma ha un contenuto illegittimo, dal momento che non potrà – come pure recita – vietare l’importazione di carne prodotta in laboratorio. Al massimo potrà vietarne la produzione in Italia, con evidenti effetti negativi su quell’industria italiana che tanto si affanna a proteggere dietro lo schermo del principio di precauzione. Principio di precauzione che, appunto, viene invocato espressamente dalla proposta come base del divieto.
Abbiamo ancora vivi nella mente i limiti alle nostre libertà nei mesi della pandemia per cogliere immediatamente come operi questo principio: un’adeguata valutazione scientifica delle informazioni disponibili circa un fenomeno collega a quel fenomeno un rischio per la salute e consente di condizionare le scelte, le preferenze, i comportamenti e gli scambi spontanei, nei limiti di quanto necessario per tamponare le probabili conseguenze negative del fenomeno. La domanda è quindi se esista una valutazione scientifica solida secondo cui la carne sintetica sia pericolosa. A rispondere è stato il ministro della Salute Schillaci che, nella conferenza stampa di presentazione del disegno di legge, ha affermato che esso “si basa sul principio di precauzione, perché al momento non ci sono evidenze scientifiche sui possibili effetti dannosi dei cibi sintetici”. Non sfugge al lettore che siamo in presenza di un rovesciamento dell’onere della prova: il principio di precauzione risalirebbe talmente tanto alla potenzialità del pericolo che chi vuole produrre, vendere o consumare carne sintetica deve dimostrare allo stato che non fa male, non il contrario.
È così invertito l’onere della prova che il riferimento al principio di precauzione appare del tutto fuori luogo, oltre che illegittimo. Ne è conferma il seguito delle parole di Schillaci, il quale, dopo aver dichiarato che non ci sono evidenze scientifiche sui possibili effetti dannosi dei cibi sintetici, ha ricordato che “l’Italia vanta una cultura agroalimentare che si basa sulla dieta mediterranea che apporta in maniera sana, equilibrata e bilanciata i nutrienti e protegge dall'insorgere di molte malattie”. Parlare di dieta equilibrata vuol dire parlare, appunto, dell’equilibrio tra nutrienti, non della loro provenienza. Se il problema per la salute fosse l’eccessivo consumo di carne rispetto agli altri nutrienti, sarebbe indifferente che fosse di origine naturale o sintetica, dal momento che, appunto, non esistono ancora non solo evidenze, ma nemmeno valutazioni in ordine ai rischi per la salute di quella prodotta in laboratorio.
Per capire allora quale significato dia il governo, del tutto arbitrariamente, al principio di precauzione soccorrono le dichiarazioni del ministro Lollobrigida. Nella medesima conferenza stampa, il ministro dell’Agricoltura ha sintetizzato che il cibo sintetico è “meno qualità, meno benessere, meno tutela della cultura, più ingiustizia sociale, più disoccupazione, più rischi per l’ambiente e la biodiversità”. A questo punto, anche il cittadino più distratto avrà capito che il divieto assoluto, a ogni livello e per ogni uso, risponde non alla precauzione, ma a una certa idea di protezione di un certo modo di intendere i prodotti “made in Italy”. Si comprende allora che la dieta mediterranea, nelle parole del ministro Schillaci, non ha a che fare con la salute, ma con la convinzione di un’identità agroalimentare basata su ritualità che il governo ritiene necessario preservare attraverso l’allontanamento della nostra filiera agroalimentare dalle sfide dell’innovazione e della ricerca e l’ancoramento a un uso tradizionale delle risorse, dei metodi e dei consumi agroalimentari.
Il governo in carica ha tutta la capacità politica di valorizzare quella che ritiene sia l’identità culturale. Sull’agroalimentare gli strumenti sono tanti, noti e utilizzati. Al contrario, vietare quello che si ritiene estraneo a tale identità vuol dire non solo far morire prima ancora che nascano nuove abitudini e, non sembri un ossimoro, nuove tradizioni anche alimentari, ma anche possibilità di sviluppo di mercato, di ricerca e innovazione che potranno portare benefici sia al tessuto produttivo che persino alle esigenze alimentari e ambientali. In fondo, ha ragione il governo. La proposta di legge è animata dal principio di precauzione. Collegato però non alla salute, ma a fantomatici rischi derivanti dalla concorrenza, dalla ricerca, dall’innovazione.