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Altro che sovranismo alimentare, piante e semi migrano da sempre
Con la destra al governo aumenta la voglia di chiudere i confini alimentari. Ma il cibo non ha patria: scoperte dalla mostra “Rara Herbaria”
Il menu del ristorante Due Camini di Borgo Egnazia, una stella Michelin e un codice vestimentario semi-formale che manda in crisi gli ospiti americani, ricchi ma restii a separarsi dalle loro braghette sintetiche in colori fluo, è la nemesi perfetta del sovranismo alimentare-gastronomico propugnato dal ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. Lo è in senso proprio, perché oltre a elencare, fra i moltissimi ingredienti autoctoni come biete, scarola, riso e finocchietto, anche visitatori botanici di lunga data tipo il bergamotto, di origine incerta ma probabilmente cinese, o la batata che è nativa dell’America centrale, è realizzato in una speciale carta riciclata, biodegradabile e piantabile (ospiti tutti debitamente estatici), che racchiude una mescola di semi di fiori di campo per api e farfalle, semi di non-ti-scordar-di-me, e un mix molto inclusivo di semi di basilico, pianta di origine africana, e di pomodoro, che nessuno ha bisogno di spiegare da dove arrivi perché, almeno fino a quando qualcuno tenterà di mettere mano ai testi scolastici nazionali come è stato fatto tentativamente in Ucraina dai russi, potremo continuare ad apprendere fin da bambini che l’elemento principe della pizza e della pummarola ‘n coppa, piatti identitari nazionali, arriva dal Sudamerica e che dunque all’epoca in cui Hernan Cortés ci mise le mani sopra era già stato portato dagli aztechi qualche decina di migliaia di chilometri più a nord rispetto alla sua terra di origine. Tomatl è parola maya, significa “cosa tondeggiante”, non indicava specificamente l’ortaggio che noi chiamiamo pomodoro, termine latino ma a sua volta piuttosto impreciso perché in alcuni periodi della sua storia è capitato descrivesse una varietà di mele (in antico tedesco pomodoro si diceva appunto paradisapfel, mela del paradiso): una volta terminato di degustare quanto è scritto nel menu, pianti il menu stesso, che è un interessante e molto naturale melting pot botanico.
Se non mettono mano ai testi scolastici, potremo continuare a imparare che l’elemento principe della pizza arriva dal Sudamerica
Come per la specie umana che, soprattutto in Europa, è il riflesso genetico di migliaia di anni di invasioni, migrazioni, conquiste e di cui quel divertente e istruttivissimo test del Dna molto di moda al momento ci offre la prova (costa poco, abbassa le presunzioni), non ci sono dubbi che il sovranismo alimentare non possa esistere in natura e che la difesa dell’autonomia botanica faccia molto ridere. Ci sono naturalmente delle eccezioni, di ordine fito-sanitario. Qualche controllo in più all’arrivo di certi castagni da frutto vent’anni fa dalla Cina fa ci avrebbe consentito per esempio di evitare l’invasione del dryocosmus kuriphilus, nel gergo comune cinipide del castagno o vespa cinese, che ha distrutto migliaia di ettari di piante lungo tutto l’Appennino e che abbiamo combattuto subito con intelligenza, cioè scatenandogli contro un altro parassita di importazione ma non ostile alle nostre piante. Però non possiamo sapere come sia andata circa dieci milioni di anni fa, quando i primi aranci presero la strada dalla stessa regione asiatica per attraversare la Pangea e trovare ottime condizioni per attecchire dalle nostre, ancora molto incerte, parti (lo so che protesterete, ma dal 2009 è assodato che gli agrumi non siano di origine indiana o medio-orientale: nel 2009, in una cava di carbone del Bangmai, regione mineraria dello Yunnan, furono trovate foglie fossili con l’immancabile peziolo alato databili al tardo Miocene, cioè a otto milioni di anni fa, dunque più antiche di qualunque altro resto conosciuto della specie, e dopotutto sia Linneus sia quasi due secoli prima Agostino Del Riccio, nella sua “Agricoltura sperimentale” che accompagnò il successo dei giardini medicei, scrisse in un manoscritto di un “arancio della China”; per info leggetevi lo strepitoso saggio sugli agrumi di Giuseppe Barbera, già ordinario di colture arboree dell’Università di Palermo, uscito da poco per il Saggiatore). E’ molto probabile che quei primi citrus, arrivati in terra straniera con mezzi non chiari, si siano semplicemente adattati, e dopotutto questo accade da sempre nell’universo: ci si aggiusta.
Dal 2009 è assodato che gli agrumi non siano di origine indiana o mediorientale: le foglie fossili più antiche vengono dalla Cina
La storia del mondo, testimoniata anche da una favolosa mostra appena inaugurata all’Accademia dei Lincei, “Rara herbaria. Libri e natura dal XV al XVII secolo”, ci dimostra non solo quanto la natura sia sovranamente refrattaria alle nostre povere aspirazioni di controllo, ma che conoscere, catalogare, studiare, importare piante sia stata attività praticata perfino dai conquistadores più determinati, a partire da quel Bartolomé de Las Casas che, sopraffatto dall’orrore di quanto i suoi connazionali stessero facendo subire alle popolazioni indigene, prese i voti e passò agli scritti di denuncia, contribuendo anche ad ammorbidire le posizioni di Carlo V sulla legislazione da applicare agli abitanti delle “terre nuove”. La mostra lincea, aperta fino al 3 luglio, si basa per una buona parte sulla collezione di erbari che l’avvocato Peter Goop, cresciuto in una famiglia di estimatori del bello e in particolare dei giardini, conserva a Vaduz, e in parte sulla collezione della stessa Biblioteca dei Lincei e Corsiniana dei Lincei, testimoni del grande interesse del fondatore dell’Accademia Federico Cesi e di tutto il mondo seicentesco per le meraviglie esotiche. Se uno dei punti forti della collezione è rappresentato da un considerevole gruppo di incunaboli, Kräuterbücher o “erbari a stampa”, datati dal 1470 al 1500 e comprensivo di una perla rara, il “Liber de arte distillandi, de simplicibus” o “Das buch der rechten Kunst zu distillieren” del chirurgo Hieronymus Brunschwig (all’epoca era previsto che medicina e conoscenze officinali si confondessero) stampato a Strasburgo nel maggio del 1500 e che reca il timbro “Cesi-Albani”, il testo più efficace per dare torto a Lollobrigida è un piccolo volume datato 1613. Si intitola “Mexicanarum plantarum imagines”, raccoglie tavole di piante mesoamericane e venne stampato per farne dono “linceo” al vescovo di Bamberg in visita a Roma, a sua volta interessatissimo alle rerum natura benché, da religioso, fosse inevitabilmente guidato da un approccio teologico al suoi usi. Scrive nel catalogo Michael Jakob dell’Université de Grenoble Alpes, co-curatore con la storica dell’arte Lucia Tongiorgi Tomasi, che nell’erbario convergono le fila di svariati sistemi di sapere.
Il tulipano all’origine dell’economia e della Borsa dei Paesi Bassi? Portato nel ’500 dalla Turchia. Zero protezionismo, decisamente
Se questo oggi può apparire scontato, non era per forza così nel Quindicesimo e nel Sedicesimo secolo. La medicina, sia nella forma dotta e scientifica, sia intesa come attività praticata da dilettanti e talvolta al limite della magia, è infatti presente nell’erbario al pari della teologia che, puntualizza lo studioso, deve “spiegare perché il Creatore abbia dotato la natura di una tale varietà, e quale sia il posto nel mondo assegnato a tante piante e animali”. A questo scopo, e l’esposizione lo mette in luce in termini spettacolari, cioè con ampio uso di immagini compreso un “volantone” che raffigura la rara Passiflora fiorita nei giardini Farnese, si aggiungono i prodromi di una filosofia della natura che “col tempo si emanciperà sia dal discorso utilitaristico, medico-terapeutico, sia dalla prospettiva teleologica dell’interpretazione dogmatica, acquisendo gradualmente una propria identità nella forma della scienza botanica moderna”. La natura come specchio del momento storico-politico di chi l’ha studiata è uno sguardo interessante, peraltro testimoniato dai molti volumi aggiornati e “moderni” selezionati dal principe Cesi per la biblioteca, basti pensare a “Nova stirpium adversaria” di Pierre Pena e Matthias de L’Obel, grande opera pubblicata nel 1576 da Plantin, in cui i due padri della botanica descrivevano molte nuove specie, tra cui il tabacco. Dello stesso L’Obel, come osserva la storica dell’arte Lucia Tongiorgi Tomasi, co-curatrice dell’esposizione e accademica lincea, Cesi possedeva “Icones stirpium”, stampato ad Anversa nel 1591, un album che illustrava numerose piante “indigene” ed “esotiche”, ed era accompagnato da indici espressi in sette lingue. Volumi, illustrazioni, note a margine testimoniano il grande interesse per le piante officinali ma soprattutto decorative, in particolare per le bulbose, che si andavano scoprendo e per le quali smaniavano artisti e collezionisti, vedi lo “Specimen historiae plantarum” di Paul de Reneaulme, stampato a Parigi nel 1611, e arricchito di venticinque incisioni a bulino che includono una pianta fiorita di girasole “a Peruana regione adducta” e, soprattutto, lo splendido “Hortus floridus” dell’incisore fiammingo Crispin de Passe, anno 1614, uno dei primi e più raffinati florilegi apparsi sulla scena europea per soddisfare la dilagante passione per i fiori esotici che, vent’anni dopo, avrebbe portato alla prima bolla speculativa della storia, la celebre bolla dei tulipani, datata 5 febbraio 1637, che inghiottì centinaia di fortune. Fiore di origine e nomenclatura turca, portato in Europa per la prima volta nel 1554 da un ambasciatore fiammingo presso la corte di Solimano il Magnifico, all’origine dello sviluppo dell’economia dei Paesi Bassi e della sua borsa valori. Decisamente, zero protezionismo. Ma se non è sperabile che Lollobrigida dedichi una mattinata del suo tempo a tentare di sbirciare i testi in francese e tedesco antico, o in volgare, sotto le teche e fra gli espositori che l’architetta Susanna Nobile ha studiato per le sale di Palazzo Corsini e che consentono di minimizzare l’inevitabile riverbero, l’hanno fatto però centinaia di persone nella serata di apertura: in tempi di sostenibilità, fosse pure solo sfoggiata, saperne di piante va infatti di moda anche fra chi può permettersi giusto tre vasi sul terrazzo e regalare semi per il giardino, il terrazzo o la vaschetta sotto la finestra è tornato ad essere il massimo dello chic.
La medicina, sia nella forma dotta o come attività da dilettanti e talvolta al limite della magia, è presente nell’erbario al pari della teologia
Scatole di semi come segni di prosperità alla nascita dell’erede, matite “piantabili” offerte alle conferenze stampa, da cui piantine di salvia e rosmarino ufficiosamente brandizzate Valentino o Herno, e quindi doni importanti, lungo la stessa tradizione artistico-elitaria del “Rariorum plantarum historia”, stampato sempre ad Anversa nel 1601, che Carolus Clusius o Charles de l’Ecluse, insigne botanico, aveva dedicato a Rodolfo II d’Asburgo. Se ne è visto un esempio all’incoronazione di Carlo III, a cui Federico Marchetti, il fondatore di Yoox, che da quando è a capo della divisione moda della taskforce reale nella sostenibilità sfoggia una contiguità con Buckingham Palace anche sui social e da lì abbiamo preso l’informazione, ha fatto dono di otto tipologie di semi autoctoni, dal cavolo nero toscano alla borraggine ligure al carciofo romano. Poi, visto che giustamente infilare una manciata di semi in una scatola pareva miserello, ha chiamato il paesaggista Marco Bay a studiare la raccolta e Fiona Corsini a illustrare le piante in un album-erbario. Quando qualcuno lo ritroverà, fra trecento anni, al castello di Windsor dove è conservata una parte non trascurabile della collezione di Federico Cesi, l’ultima cosa che gli verrà in mente sarà il tentativo di instaurare la sovranità alimentare nell’Italia del terzo decennio del Duemila.