Tra salute e piacere

Yuka informa sul cibo da acquistare e sollecita i sensi di colpa sull'alimentazione

Arnaldo Greco

L'app, basata sul sistema Nutriscore, utilizza un sistema a semaforo per classificare i prodotti da 0 a 100, influenzando profondamente le scelte alimentari dei consumatori. Ma nonostante le critiche, il programma è popolare perché semplifica le complesse considerazioni etiche e nutrizionali 

C’è una certa tipologia di clienti che si riesce ormai a distinguere nei supermercati: afferrano un pacco di biscotti, cercano il codice a barre sulla confezione, lo scansionano attraverso il telefonino, poi guardano sconsolati lo schermo e ripongono il pacco. Allora provano con un’altra marca o un altro tipo di biscotti, ma la delusione è la stessa. Il responso è chiaro: il telefonino gli ha detto di nuovo che è meglio di no e che quel prodotto non è abbastanza sano. Sono i consumatori che usano Yuka, una app francese che ha ormai tre milioni di download anche in Italia e cinquanta nel mondo e che offre informazioni alimentari su “oltre tre milioni di prodotti”, e che deprime le persone. Ma, d’altronde, se, come si dice, per fare una frittata bisogna rompere qualche uovo, anche per elevare il proprio benessere alimentare bisognerà pure rompere qualcosa. (E, comunque, se potesse misurare anche le ricette, Yuka ti direbbe che una frittata non è il massimo).
 

Il meccanismo alla base di questa app si basa sul Nutriscore, un sistema di etichettatura dei prodotti che li valuta in base ai valori nutrizionali, e alla presenza di additivi alimentari. In più c’è un bonus del 10 per cento per i prodotti “bio”. Di ogni prodotto Yuka offre una valutazione che può andare da zero a cento. Allo zero o giù di lì corrisponde un disco rosso, per i prodotti intorno al 50 per cento e giudicati “mediocri” il disco è arancione-giallo, man mano che ci si avvicina ai cento il disco diventa verde. Un semaforo, insomma. E, infatti, quando ti ritrovi a mangiare un prodotto segnato da disco rosso ti pare di commettere un’infrazione. Speri di non essere visto e notato da nessuno, il senso di colpa è quello. Al contrario il sapore e il gusto dei prodotti segnati da disco verde si amplifica inaspettatamente. Uno yogurt giudicato, fino al giorno prima, un po’ troppo zuccherato e mangiato di nascosto come fosse un colpevole dessert diventa, invece, un premio e un motivo di rivendicazione orgogliosa perfino di fronte a sé stessi – ho a cura il mio bene – quando si scopre che Yuka gli ha dato un bell’ottanta.
 

Questo sistema “a semaforo” è stato adottato con entusiasmo da alcuni paesi europei come Spagna, Francia e Germania, ma viene duramente criticato dall’Italia (e, va detto, anche da molti esperti. Almeno altrettanti rispetto a quanti l’hanno validato). Dunque, si sa che, tra tutti gli orgogli e sovranismi nazionali, quello alimentare è il più forte e combattivo, ma qui il punto non è tanto questionare se il punteggio sia sensato, quanto riflettere su come il senso di colpa sia diventato una componente essenziale dell’alimentazione quotidiana. Prima ancora delle ripercussioni su scelte e sapori, il successo di Yuka si basa su questo. Le persone vanno a fare la spesa dovendo tenere in considerazione che la merce non sia prodotta troppo lontano (se non a km 0 che almeno i mirtilli non arrivino dal Perù) e che il cibo non sia prodotto in serre riscaldate e che non arrivi via aereo. E poi che non ci sia troppo packaging e che, quel poco che c’è, sia almeno riciclabile agevolmente. Magari che gli allevamenti non siano intensivi, magari privilegiando i piccoli produttori rispetto ai grandi, magari colture che sprecano meno acqua di altre.
 

E tutto ciò è preliminare rispetto ai valori alimentari. Perché solo a questo punto cominciano le considerazioni sui cibi troppo raffinati, sulle proteine che non sono mai troppe, sul colesterolo e le malattie del primo mondo, sui cibi cancerogeni, sul mercurio nei pesci, sul miele non Ue, sul grano non italiano, sugli antibiotici, sull’olio di palma, sugli additivi e i coloranti e chissà cos’altro. E alcuni aggiungono anche le considerazioni politiche, tra boicottaggi di nazioni specifiche, catene di supermercati in particolare o singole aziende. Insomma, una tale mole di informazioni da incrociare che le preferenze personali di gusto sono davvero l’ultima cosa. Uno se le dimentica quasi, troppo preso dal resto. Per questo affidare tutte questa valutazioni all’algoritmo di un’app invece di scervellarsi da soli può essere liberatorio. Anche se poi si finisce per condannarsi a un sistema di valori altrui e al terzo giorno che prepari la zuppa di legumi e i figli ti domandano cosa stia succedendo, non hai il coraggio di ammettere che ormai sei dipendente da Yuka come loro lo sono da TikTok e che così come è meglio se loro fanno i compiti senza smartphone, così tu non dovresti andare al supermercato con lo smartphone, giacché l’ortoressia non è un problema minore dell’olio di palma.

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