Ma dove erano i lampascioni?
Il G7 della finta masseria e dal palato scialbo, senza vera Puglia in tavola
La comunicazione politica è anche una questione gastronomica, ma quello di Borgo Egnanzia è un summit poco DOP, a dispetto dei "sapori tipici" regionali
Ma dove sono i lampascioni? Ditemi dove sono, dov’erano, i lampascioni al G7 pugliese. Scrutando i vari menù serviti tra Brindisi e Fasano ai potenti della Terra non ho trovato l’ingrediente che è l’anima di questa terra. Caro al foggiano Renzo Arbore così come al lucano Leonardo Sinisgalli (“I lampascioni nella teglia hanno il colore del miele”, frase, per chi se ne intende, da acquolina in bocca). Ma capisco, capisco benissimo, sono un uomo di mondo, il lampascione è un cipollaccio selvatico mentre il G7 abbisognava di una Puglia addomesticata, di un sud turistico, di un’Italia stereotipata. Lo dimostra anche l’insistere, nella comunicazione governativa o sottogovernativa, vallo a trovare il colpevole, nel collocarlo a Borgo Egnazia come se Borgo Egnazia fosse una località e non invece il nome di un grosso albergo situato nel comune di Fasano. Chiaro, meglio una finta masseria davvero lussuosa di una Puglia reale e non pomposa, meglio un non-luogo dove si sposano i rampolli dei magnati indiani piuttosto che una sala banchetti in cui disdicevoli indigeni si abboffano di cozze pelose, gnummareddi, bombette e appunto lampascioni.
Meglio un menù come quello ammannito l’altro giorno al Castello Svevo di Brindisi: Puglia scialba, a dispetto dei “sapori tipici pugliesi” che all’organizzatore locale è piaciuto citare a beneficio di giornalisti che non ne sanno mezza. “Fagottini di scorfano”? Ma quando mai in Puglia si sono mangiati fagottini? Ce li vedete Al Bano, Michele Placido, Adriano Pappalardo a mangiare fagottini? Che poi la parola svirilizza solo a sentirla. Mai nella vita ordinerei un piatto dal nome tanto lezioso e infantile: ho una reputazione da difendere. E i “tortelli di gallinella”? Anonimato adriatico, qualunquismo gastronomico, piatto reperibile ovunque ogniqualvolta si voglia intasare una lista di vezzeggiativi. “Julienne di pesce serra”? “Julienne” è un’altra parola che mi risulta indigesta, vestigia del tempo in cui la cucina italiana era sottomessa a quella francese e perciò sicuramente gradita all’abortomane Macron. Ma la peggiore di tutte è “crumble”. Sulla tavola di Brindisi è comparsa una “crema di burrata con crumble di taralli dolci”. Quanti ne ho mangiati a Potenza di taralli dolci! Però mia nonna avrebbe detto “briciole”. E pure io che sono un patriota vero e odio i collaborazionisti dell’invasore anglofono.
I vini? Ahi! Si è partito malissimo con uno Chardonnay spumante franco-bresciano, si è proseguito male con un Fiano apulo-toscano passato se non mi sbaglio in barrique, insomma il vino dello zio, si è concluso per miracolo col Moscato di Trani del valoroso vignaiolo Franco Di Filippo, unico momento di pura Puglia di tutto un banchetto banale.
Naturalmente a Fasano il vitto è salito di livello: officiava Bottura. La cui missione era però illustrare ai “padroni del mondo” (doppia citazione, Robert Hugh Benson e Papa Francesco) l’Italia in generale anziché la Puglia in particolare. Scorrendo il menù ho individuato il culmine nei meravigliosi “tortellini del dito mignolo” che ho avuto la fortuna di gustare non certo a Borgo Egnazia bensì nei luoghi botturiani di origine, la Francescana di Modena e il Cavallino di Maranello. Accompagnati, leggo, da un Lambrusco di Sorbara che, considerata la sua suprema versatilità, sarebbe stato il massimo anche coi lampascioni che non c’erano.
Antisemitismo e fornelli