Le sfide che il vino italiano non può perdere

Giovanni Battistuzzi

Il mercato è stabile nonostante una situazione internazionale complicata. Eppure consorzi e produttori dovrebbero mettersi al lavoro per adeguarsi a un mercato che cambia velocemente. Parlano Francesco Liantonio, vicepresidente di Federdoc e presidente di Valoritalia, e Giuseppe Liberatore, dg di Valoritalia

È stato un anno di stallo il 2023 per il vino italiano. Interlocutorio per numeri e risultati, ma in fondo, vista la situazione internazionale - con la guerra in Ucraina e quella che è iniziata in Israele -, economica - con più inflazione che ottimismo - e climatica, sarebbe potuta andare peggio. Secondo il rapporto di Valoritalia, la società leader in Italia per il controllo e la certificazione dei vini a denominazione d’origine, indicazione geografica ecc, nel 2023 la crescita nei volumi dell'imbottigliato è stata dello 0,54 per cento (2,8 per cento se raffrontata alla media dei tre anni precedenti), mentre c'è stata una riduzione del valore economico dell’imbottigliato.

"L'Italia del vino si è difesa abbastanza bene rispetto a tutti gli altri paesi produttori considerando la situazione internazionale", dice al Foglio Giuseppe Liberatore, direttore generale di Valoritalia. "Il 2023 si è chiuso sostanzialmente in pareggio il bilancio. Sono andati bene i vini Igt, l'Indicazione geografica tipica, che hanno aumentato il valore di mercato segnando una crescita annua del 16,5 per cento, mentre i vini Doc hanno ceduto circa il 3 per cento e i Docg hanno chiuso con una perdita del 6. Insomma, un'annata un po' in chiaroscuro".

Giuseppe Liberatore spiega che questi sono dati in linea con le attese perché "quello che sta accadendo nel mondo, tra guerre, elezioni americane, aumento dell'inflazione, insomma in questo aumento dell'incertezza, porta sempre una contrazione del mercato del vino. Le guerre non determinano solo un aumento dei timori per il futuro, ma anche un restringimento del mercato mondiale a causa dell'aumento dei dazi e delle difficoltà di passaggio e arrivo a destinazione della merce. E quello del vino è uno dei mercati che subisce di più le conseguenze".

 

     

In un mercato che cambia, che muta costantemente e più velocemente di un tempo, l'Italia sta cercando di adeguarsi. Servirebbe però un passo più veloce, servirebbe fare di più e con più convinzione. "Il settore vitivinicolo ha delle difficoltà strutturali e non sono difficoltà momentanee", dice al Foglio Francesco Liantonio, vicepresidente di Federdoc nonché presidente di Valoritalia. "L'Italia dovrebbe adeguare la sua struttura produttiva alle nuove sfide di un mercato che sta cambiando, adeguare la struttura di rappresentanza, che dovrebbe essere un'eccellenza tanto quanto lo è il nostro vino, per ampliare la nostra presenza nei mercati, oltre ovviamente ai metodi di produzione".

       

Per Francesco Liantonio il vino italiano vive ancora in un dimensione di eccessivo frazionamento e questo può essere un problema per la crescita del settore. "Piccolo è bello. Ce lo siamo sentiti dire spesso. E in qualche caso è anche vero. Ma forse sarebbe il caso di ripensare in modo analitico a tutto questo. Perché ci sono sfide che il piccolo non può reggere, o almeno non può reggerle da solo. Servirebbe più unione, più unità di intenti. In un momento di cambiamento veloce, in un momento in cui ci sono dei problemi strutturali da risolvere, le nostre denominazioni dovrebbero fare massa critica, riuscire a crearsi uno spazio in un contesto internazionale complesso". Anche perché "in fondo i consorzi portano avanti, ognuno a loro modo, uno stesso sistema valoriale, quello del vino italiano, che rispecchia cura e amore per il territorio".

Considerando i dati del rapporto 2023, in Italia le prime 10 denominazioni d'origine hanno il 68 per cento del mercato totale, le prime 50 rappresentano il 94 per cento, mentre le altre 169 denominazioni contano solo per appena il sei per cento. Uno squlibrio che potrebbe essere risolto con l'aggregazione e quindi con la creazione di un fronte comune per aumentare la loro posizione sia nel mercato italiano, sia in quello internazionale. Perché, "se da un lato il vino è sì la presentazione di un territorio e delle sue peculiarità, un modo di diventare ambasciatori di una cultura, di una storia, denominazioni di origini troppo piccole portano quel territorio, quella cultura e quella storia a uno stato di poca rilevanza sia nazionale sia, ovviamente, internazionale", sottolinea Francesco Liantonio. Anche perché "se si è piccoli, troppo piccoli, è difficile fare programmi a lungo termine e quindi andare incontro ai cambiamenti del mercato, poter affrontare il cambiamento di potere d'acquisto della popolazione, riequilibrare domande e offerte e, ovviamente, fare delle scelte importanti che riguardano il futuro".

E questo in un mercato che sta cambiando per il cambiamento del consumatore che, come rilvevato da Nomisma, sta dando sempre più importanza alla sostenibilità. L'attenzione alla sostenibilità, ambientale, lavorativa, del prodotto, è qualcosa che unisce, sempre secondo l'indagine, sia produttori che consumatori, in quello che è un raro caso di comunione di intenti tra chi produce qualcosa e chi consuma quel prodotto. "Anche perché la sostenibilità non è più qualcosa di campato in aria, ma è qualcosa di reale, che può essere certificato ed è certificato", aggiunge Francesco Liantonio.

Intervenire però sulla sostenibilità ha un costo. Costi di adeguamento delle strutture, costi di produzione, costi di pianificazione. Costi che sono fattibili solo in presenza di un consorzio coeso e ampio. "Se si vuole davvero tutelare le diversità, i territori, i vitigni, serve fare squadra, serve trovare comunione di intenti e ingrandire la base, magari per macro zone, per territori e per tipologia di vini. Serve aggregarsi per permettere alle denominazioni di esprimere quello che hanno di fantastico da offrire in tema di governo del territorio, valorizzazione del prodotto e del territorio e potere quindi affacciarsi davvero in modo competitivo sul nazionale e internazionale e poter affrontare il cambiamento di gusti e di mercato".

Il vino inoltre sta iniziando a fare i conti anche con l'aumento di campagne che lo vogliono paragonare, senza distinguo, a tutte le altre sostanze alcoliche. E questo è da una parte un problema, dall'altro è una esagerazione, perché mettere in un solo calderone tutte le sostanze alcoliche è qualcosa di sbagliato. "Per evitare una campagna discriminatoria nei confronti del vino", spiega Giuseppe Liberatore, "serve una corretta corretta educazione del consumatore. Perché si deve informare con chiarezza il limite tra l'uso e l'abuso. Una campagna di comunicazione che deve tenere assieme produttori, consorzi e politica, coinvolgendo anche l'Unione europea". Unione europea, senza la quale il vino italiano, sottolinea Giuseppe Liberatore, "non ha futuro, sia per quanto riguarda le attività di informazione proprio che combattere l'alcolismo, una piaga che colpisce anche il vino di qualità, sia per quanto riguarda il tema degli aiuti che l'Europa dà all'Italia per l'agricoltura". Sia anche per quanto riguarda, "il peso che l'Europa ha nella partita riguardante l'innovazione", aggiunge Francesco Liantonio, "perché se è vero che il vino è tradizione e cultura, è altrettanto vero che tecnologia e innovazione sono due componenti che chi produce vino non può e non deve ignorare".

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