La raccolta delle mele in Valtellina (foto Giovanni Mereghetti/Education Images/Universal Images Group via Getty Images) 

Contro i cattivi maestri di Slow Food

Antonio Pascale

Bene i presìdi e qualche idea, ma l’associazione è un coacervo di contraddizioni: si batte da sempre contro concimi di sintesi, agrofarmaci, ogm, senza riconoscere i loro meriti nella grande sfida di sfamare il pianeta

Slow Food ne ha fatta di strada, da quando fu fondata, quasi quarant’anni fa, nel 1986, con il nome di Arci Gola. E’ un brand cosmopolita (anche se strenuamente difende i prodotti locali, preferibilmente a Km0, ma non si oppone ove possibile alla loro esportazione), ha lottato per la sovranità alimentare (la sua idea di sovranità dovrebbe essere diversa da quella portata avanti da FdI, anche se ad oggi fatico a individuarne le sfumature), e (ha lottato) per una maggiore consapevolezza alimentare (anche se ha difeso, simbolicamente, il pane di ieri, che non sempre c’era, dunque, simbolicamente, ha difeso, idealizzandolo, il paese di ieri). Nel percorso vanno certamente applauditi i suoi presìdi (un modo per far conoscere alcune varietà e culture non più mainstream) e in senso lato le idee per un’agricoltura migliore. Se non si parla di questi argomenti poi i cittadini si accontentano di quello che offre il convento.  

 

Tuttavia, molti indizi ci spingono a dire che un’associazione come Slow Food, può esistere, avere la lunga vita che gli spetta, professare la fede nella lentezza, solo in una dimensione di capitalismo avanzato: produttivo, veloce, tecnologico. Non sarebbe mai potuta nascere e prosperare ai tempi di mio nonno contadino, e cioè ai primi del Novecento, ma nemmeno ai tempi di mio padre, che è del 1937. Fino all’altro ieri, l’agricoltura era un mondo stagnante, poco produttiva (la resa media dei cereali è rimasta invariata per 10 mila anni, attestandosi su una tonnellata/ettaro), e nonostante si seguissero i tempi della natura, qualunque cosa voglia dire questa affermazione fallace ma suggestiva, i ritmi di lavoro erano stressanti. Le famiglie contadine con quel loro modus vivendi oggi sarebbero definite tossiche. Vuoi per lo sfruttamento della manodopera infantile (siccome si produceva poco, tutti dovevano lavorare la terra: mio padre ha studiato solo quando è arrivato il trattore), vuoi per il tempo dedicato alla cura dei campi (alcuni miei parenti camminavano dalle tre di notte alle sette del mattino per raggiungere i campi, con le scarpe legate attorno al collo, perché ne avevano un solo paio e dovevano preservarle), e aggiungiamo la condizione della donna (soprattutto al sud) che faticando di più, per le varie incombenze, domestiche oltre che agricole, tendeva anche ad avere esaurimenti nervosi niente male. Tanto per dire, gli esaurimenti venivano curati alla meno peggio, o in alcune zone della Campania e della Puglia, le donne sostenevano di essere state morse dal ragno, così arrivavano i musicisti, suonavano la tarantella, e la pazzarella scendeva negli inferi, schiacciava il ragno e saliva con animo rinnovato (basta sfogliare i dimenticati libri di Ernesto de Martino, per capire come la povertà, la miseria, la morte prematura dei bambini, avessero creato la terribile sensazione di non essere padroni del proprio destino e l’unica speranza era ricorrere a pratiche magiche per agevolare gli dèi, pagani e no). 

   

Un’associazione come Slow Food può esistere e avere lunga vita, professare la fede nella lentezza, solo in una dimensione di capitalismo avanzato: produttivo, veloce, tecnologico. Non sarebbe mai potuta nascere  in quelle realtà che ancora oggi non possono usare concimi, agrofarmaci, miglioramenti genetici

  
Il mondo moderno e benestante che permette oggi a migliaia di persone di ballare la taranta, con scenografie bellissime e costose e impianto luci energivoro, ballare insomma senza rispettare almeno un minuto di silenzio per tutti i contadini vissuti di stenti, a causa della fame, è lo stesso mondo, moderno, efficiente, produttivo, capitalistico che permette a un’associazione come Slow Food di prosperare e di dettare un decalogo come quello appena pubblicizzato dalla presidente dell’associazione Barbara Nappini, in attesa del G7 agricoltura e pesca (dal 25 al 29 settembre a Siracusa). Insomma, il concetto che vale la pena ripetere è che un’associazione come Slow Food, dove il cibo è celebrato (spesso con retorica fastidiosa), nei cui ristoranti si mangia bene e i cui chef per la postura e le argomentazioni filosofiche (sul cibo) sembrano esistenzialisti francesi, un’associazione che dice basta all’agricoltura intensiva, basta agli agrofarmaci (che chiama pesticidi), no agli ogm, sì alla riscoperta di antiche colture, non sarebbe mai potuta nascere, affermarsi, avere un po’ di credito in quelle realtà che ancora oggi non possono usare concimi, agrofarmaci, miglioramenti genetici. Le cui comunità seguono i bei ritmi della natura. Il che tradotto in termini più prosaici, significa che le donne si smazzano per il lavoro, i bambini sono sottonutriti, a scuola non riescono a tenere la testa alta, spesso si addormentano, non studiano, riducono le proprie possibilità.  Ricordando dunque che un bambino con lieve malnutrizione ha il doppio delle possibilità di morire rispetto a uno ben nutrito, e un bambino con seria malnutrizione ha ben otto volte la possibilità di morire rispetto a uno ben nutrito, bisogna spingersi ad affermare che Slow Food è un coacervo di contraddizioni agronomiche e filosofiche (queste in qualità di scrittore me la rende pure simpatica).

   
Esaminiamo alcune argomentazioni portate avanti proprio da Barbara Nappini (dall’intervista realizzata da Antonio Cianciullo per HuffPost il 12 settembre scorso): “Già oggi produciamo cibo per 13 miliardi di persone, ne buttiamo un terzo mentre un miliardo di persone non ne ha abbastanza. C’è qualcosa che non va. Ed è il modello di agricoltura nato nel dopoguerra basato sullo spreco e sull’abbattimento del valore del cibo. E’ vero che questo modello ha permesso per alcuni decenni un forte aumento di produttività: tra il 1959 e il 1985 le rese agricole sono cresciute del 250 per cento. Ma tutto ciò è avvenuto a fronte di un aumento di input energetici – fertilizzanti chimici, pesticidi, trattori”. Questo è proprio il nodo centrale. A parte che il dato relativo allo spreco è soggetto a parecchie critiche, ma poi, e non è un paradosso, chi spreca di più sono i paesi emergenti, non certo l’occidente con le sue logistiche ferree e i suoi impianti di  refrigerazione. Sprecano di più perché i prodotti si deteriorano dal campo al mercato. Noi se buttiamo roba è perché sbagliamo a fare la spesa, accumuliamo scorte che non riusciamo a smaltire. O sprechiamo perché i prodotti restano in campo, a causa degli attacchi di patogeni che li rendono insalubri: pure quello è spreco. E se non restano in campo e arrivano fino a noi è perché usiamo agrofarmaci (miglioratissimi dal punto di vista dell’impatto ambientale, visto che tantissime molecole usate in passato sono state abolite del tutto). Non sprechiamo perché concimiamo le piante.

 

Qui mi rendo conto sono cose tecniche, ma purtroppo la natura non è quella ritratta dai pittori della domenica, e cioè un bel quadretto. Nella sostanza, nonostante siamo pieni di azoto, in atmosfera, le piante non riescono (tranne le leguminose) a sintetizzarlo. O arriva a terra dopo che i fulmini hanno rotto i legami e fatto precipitare gli ossidi, oppure il terreno prima o poi esaurisce la scorta di azoto (e poi in passato ti toccava mettere su una bella guerra per le risorse). E se non c’è azoto (e fosforo e potassio) la pianta non cresce e non produce, quindi non mangiamo. Il letame, le deiezioni animali e altro, contengono una limitata quantità di azoto, non sufficiente alle attuali esigenze produttive, e se non forniamo alimenti ricchi di azoto, gli animali non ce lo sintetizzano (finché abbiamo utilizzato solo il letame la resa media dei cereali è rimasta ancora una tonnellata/ettaro, in quei paesi dove si utilizza solo letame la media è ancora questa).

  

E’ da pochissimo che abbiamo concimi di sintesi e infatti è da pochissimo che i cittadini del mondo sono sfuggiti alla fame e alle carestie. E’ dalla seconda metà del Novecento che la mortalità infantile si è abbassata e la vita media si è allungata, quindi nella sostanza abbiamo più tempo per mangiare bene nei suddetti ristoranti, stellati e no. E’ da soli sessant’anni che la popolazione si è raddoppiata: quando sono nato, nel 1966, c’erano 3,4 miliardi di persone, siamo arrivati a otto perché abbiamo realizzato un grande desiderio: i bambini non sono morti più. Poi chiaro, crescono, non fanno più quegli occhietti da cucciolo e ci stanno sulle balle, ma questo progresso lo si deve in prima battuta alla migliore alimentazione ottenuta proprio con quegli input oggi contestati, poi vaccini, antibiotici, fognature. Naturalmente ogni beneficio ha un costo, e siccome, come tutte le cose umane, anche l’agricoltura è un compromesso, è opinione diffusa che i costi dell’agricoltura ci sono eccome. Si possono elencare, e dobbiamo lavorare per ridurli il più possibile ma bisogna mantenere i benefici: ergo l’agricoltura moderna difficilmente potrà fare a meno di concimi e agrofarmaci, impianti di irrigazioni, meccanizzazione e soprattutto miglioramento genetico. Tutti questi strumenti andrebbero costantemente migliorati, non eliminati. 


Slow Food potrebbe chiedere la prova del nove e sarei tentato di appoggiare una loro eventuale proposta estrema. Cioè di chiedere il bando del miglioramento genetico, dei trattori, dei concimi di sintesi, di tutti gli agrofarmaci (anche quelli bio, perché a uccidere il patogeno non è una bella dichiarazione del rappresentante di Slow Food ma una molecola chimica che necessita di essere prodotta, testata e finanziata da una multinazionale chimica: anche i prodotti bio vengono dalle odiate multinazionali). Insomma di lasciar fare ai ritmi della natura. Anticipo le conclusioni, nemmeno potremmo sederci con i popcorn a vedere il risultato, perché non avremmo popcorn. 

 

L’agricoltura dispone di un’ottima e nuova cassetta degli attrezzi per essere più sostenibile, purtroppo non la si conosce perché si parla solo al passato. Quello che dispiace  è l’antipatia che alcune associazioni (Slow Food in primis) hanno verso le biotecnologie. Che invece sono il migliore strumento che abbiamo per essere bio

   
E l’agricoltura intensiva? Anche qui, non si capisce bene. Quando si parla di monocultura di mais tutti contro il mais (che tecnicamente parlando è una pianta che non soffre la stanchezza del terreno, e la puoi reimpiantare 15/20 anni sullo stesso appezzamento senza subire cali produttivi), ma monocultura sono anche le mele Renette, le mele della  Val di Non, anche le pere Romagnole (l’80 per cento della pericoltura italiana è in Romagna), anche gli aranceti, mandarini e affini della piana di Sibari: sono lì da decenni e rispondono ai dettami dell’agricoltura intensiva. Poi in Italia, vista la conformazione orografica, gioie e dolori della nostra agricoltura, dove volete sia lo spazio per fare agricoltura intensiva? Quante sono le pianure? Oltra alla Pianura Padana, il Fucino, la piana del Sele, la piana di Sibari, un po’ di costa orientale siciliana. E perché dovremmo preferire quella estensiva? Davvero vi piacerebbe fare come nella pampa, piazzare bovini e altri ungulati a ruminare e defecare lungo grandi estensioni di terreno?  L’agricoltura intensiva ha un vantaggio, concentrando la produzione su meno terra, libera altra terra. Se la gestiamo per bene, il mondo diventa più bello e verde. La biodiversità poi: si ignora che è stata costruita anche grazie alla ricerca genetica. Quelle che oggi rimpiangiamo, le cultivar degli anni Cinquanta, sono tutte cultivar ottenute col miglioramento genetico, cioè dai sapiens. Poi non sono perse, sono tutte conservate, all’occasione si possono usare alcuni loro geni, utili alle mutate esigenze ambientali. Perché, come non riteniamo che una Fiat 500 degli anni Cinquanta sia ancora utilizzabile ora (se non la domenica per farsi un giro), così accade a molte cultivar: col tempo, con le mutate esigenze ambientali, di mercato, di gusto dei consumatori, non vengono più coltivate. Se le riprendiamo dobbiamo anche modificarle, così come abbiamo migliorato la Fiat 500. L’importante è non perderle, non disperdere il seme, insomma sfruttare i loro geni. Giusto per dire, i geni di molti grani selezionati da Strampelli si ritrovano anche in quelli attuali, c’è del Cappelli in tutti i nostri grani. Comunque, queste sono polemiche sterili, l’agricoltura dispone di un’ottima e nuova cassetta degli attrezzi per essere più sostenibile, purtroppo non la si conosce perché si parla solo al passato, ma quello che dispiace tanto è questa antipatia che alcune associazioni (Slow Food in primis) hanno verso le biotecnologie. No agli ogm è una loro nenia. Invece sono il migliore strumento che abbiamo per essere bio. Per modificare, ad esempio, per abbassare la dose di chimica, rafforzare la pianta (così sprechi di meno), regolare meglio i geni che garantiscono qualità, durata del prodotto, resistenze a stress, ecc. Tanto i geni li spostiamo lo stesso, con altre tecniche (ma spesso a casaccio, con più tempo e quando arrivano in campo sono prodotti vecchi). Con le biotecnologie possiamo fare tutte queste cose (con più velocità, più precisione, più sicurezza). Andrebbe solo affrontato il nodo dei brevetti, invece di dire no a tutto, e redigere il decalogo di turno, così da sentirsi puri, duri e giusti, prima di andare a mangiare nei ristoranti con l’insegna (fake): il cibo com’era una volta.