La stella cadente
Un pensiero sincero ai crocifissi sul calvario della vanità gastronomica
Aumentano le aspettative, con clienti esigenti e proposte economiche più allettanti per rubare il personale qualificato: da celebrazione dell'eccellenza, la famosissima stella si trasforma in zavorra pronta a condurre con frequenza i ristoranti alla chiusura. Un'ossessione che diventa ecatombe culinaria
Meglio perderle che trovarle, le stelle Michelin. Sia dal punto di vista del cliente, che può ottenere più soddisfazioni altrove, sia dal punto di vista dell’esercente, che eviterà di andare a gambe all’aria. Oggi lo dice l’Economist, io lo sapevo da tanto ma visto che autocitarsi è antipatico, e il “ve l’avevo detto” insopportabile, ricorderò Camilla Baresani che in un libro intitolato Tic già nel 2006 liquidava l’alta cucina velleitaria e insostenibile: “Fagottini alla pescatrice con pistacchi e mandarino, risotto con spezie thai e anatra e fichi in tempura, cappuccino di lenticchie con mousse di zampone, tonno in crosta di pane… Tutto disastroso. Ma proprio tutto tutto”. Era il menù assurdo di un ristorante ambizioso e perciò sull’orlo del fallimento. A simili conclusioni sono arrivati adesso gli economisti anglofoni, più lenti ma certamente più analitici di noi gastronomi italofoni. Come riporta il settimanale inglese, Daniel Sands della UCL School of Management ha approfondito le vicende di tutti i ristoranti che hanno ottenuto una stella dopo aver aperto a New York nel periodo 2000-’14. Scoprendo che la stella è una zavorra, se non proprio il bacio della morte. Verificando che l’ambito riconoscimento apporta gloria e sottrae denaro: Guida Rossa e bilanci in rosso. Notando che i locali premiati hanno più probabilità di chiudere dei locali non premiati: il 40 per cento di quei ristoranti stellati aveva già chiuso nel 2019. Un’ecatombe.
Secondo Sands le motivazioni di siffatta strage sono da ricercare nell’aumento delle aspettative ingenerate dalla Michelin. Le stelle attirano sì nuovi clienti ma di una tipologia letale, bevitori esigentissimi che pretendono cantine fornitissime, costosissime da rifornire. Li conosco bene, sono ricchi noiosi e francofili che non sanno riconoscere un piatto da un bicchiere e quindi in un ristorante non mangiano bene se in carta non trovano Krug e Romanée-Conti. Come se ciò non bastasse gli astri illuminano i cuochi fino all’abbagliamento, li rendono più visibili sul mercato del lavoro e perciò destinatari di allettanti proposte: il povero ristoratore dovrà raddoppiare le paghe se non vorrà ritrovarsi abbandonato sul più bello (è successo molte volte e non solo a New York). Se non ti lasciano i cuochi potrebbero lasciarti i clienti, non subito, l’anno seguente quando la nuova edizione della guida micidiale proporrà ai gourmet più esaltati nuovi locali assolutamente da provare. Chi di moda ferisce di moda perisce.
Né gli economisti né l’Economist hanno analizzato la terza categoria, la più triste: gli stellati mancati. Ci sono gli stellati, ci sono i non stellati tranquilli, che non ci hanno mai nemmeno provato, e poi ci sono quelli che ci hanno provato e, per mille motivi, non ce l’hanno fatta. Coloro che hanno inseguito la stella come si insegue un miraggio, che per assaltare il cielo sono rovinati a terra ancor prima di farsi un giro di passerella. Ne ho conosciuti tanti e purtroppo ne vedo spuntare anche adesso. Cristianamente penso a loro, ai crocifissi sul calvario della vanità gastronomica. Vorrei che nelle varie scuole di cucina insieme alle tecniche di cottura si studiasse Orazio, l’indispensabile poeta dell’aurea via di mezzo: le buone trattorie vanno tutte bene.