Crollo culturale
Vino? Ma quando mai! Per la Generazione Z esiste solo Bio, il dio delle tisane
È da vecchi, è da ricchi, fa male e non è da salutisti. Ma alla radice del calo dei consumi fra i giovani c'è l'assenza di un contesto per l’alcol: non c'è più una cultura per il vino
I giovani non bevono più. In verità sembrano non fare più tantissime cose: fumare, drogarsi, guidare, leggere, copulare… Ma alcune di queste attività sono biasimevoli (decidete voi quali) o di difficile misurazione e allora mi concentro sull’abbandono del bere, punta dell’iceberg di complessive dimissioni dalla vita, di una Great Resignation che supera l’ambito del lavoro per diventare una bandiera bianca totale. Riguardo il bicchiere siamo oltre le sensazioni e l’opinabile: sono i dati di mercato a dirlo. Impietosamente.
Tutti dappertutto scrivono di conoscere almeno una causa. Bravi che sono. Causa numero uno: il vino è da vecchi. Peccato che come giustificazione del no alcol non funzioni perché ormai patiscono pure i cocktail, l’altro giorno in enoteca mi dicevano come si sia fermato addirittura il gin che viene da anni gloriosi ed è protagonista di innumerevoli beveroni giovaniloidi. Causa numero due: il vino è da ricchi. Si sovrappone in parte alla causa precedente siccome non tutti i vecchi sono ricchi ma quasi tutti i ricchi sono vecchi. Solo che il prezzo è un problema del Brunello e non del Tavernello che costa meno di due euri al litro. E passando alla birra vedo ora che Lidl (lo vedo online essendo un posto dove io che bevo rarissimi rifermentati non metto piede) offre la lattina della Ichnusa a 0,99. Causa numero tre: l’alcol fa male e i giovani sono salutisti. Spiegatemi allora il boom degli psicofarmaci presso gli adolescenti. Sertralina al posto di falanghina, trazodone invece di montefiascone, sai che vantaggio per fegato e reni.
Le cause vere le conosco io. Le cause vere sono culturali e si riassumono nella presente deculturazione che è innanzitutto fine della religione. I giovani, prenderne atto, non sono più cristiani. Nulla sanno e nulla sono interessati a sapere del vino sangue di Cristo. Sono pagani ma non in senso dionisiaco, credono in Bio, il dio delle tisane con la certificazione “organic” (i pagani contemporanei non fanno orge nei boschi, magari: scrutano la lista degli ingredienti e confidano nella burocrazia). E poi non leggono Orazio, non leggono Baudelaire, non leggono Brera, forse non leggono nemmeno Bukowski, i magnifici quattro che da ragazzo mi condussero sulla via dell’ebrezza. Non ascoltano le canzoni dei grandi cantautori alcolici, Ciampi, De Andrè, Guccini. Non vedono più i film di Don Camillo e di James Bond dove Lambrusco e Martini non mancavano mai.
Secondo tutti gli studi, a cominciare dai rapporti IWSR (International Wine & Spirits Research), è la cosiddetta Generazione Z l’avanguardia della catastrofe e ovviamente questi 18-29enni non hanno il mito di Churchill che si vantava di bere “prima, dopo e durante ogni pasto, nonché negli intervalli che li separavano”, né di Oriana Fallaci che consumava champagne a casse, e il loro fotografo di riferimento non è Helmut Newton la cui Paloma Picasso con il tumbler a coprire parzialmente il seno nudo è una colonna della mia formazione estetica. Non c’è più un contesto per l’alcol. Non c’è più una cultura per il vino. “Un selvaggio che assaggia il vino per la prima volta fa smorfie di disgusto e lo sputa” scrive Rousseau in “Emilio o dell’educazione”. L’educazione, appunto. L’educazione di quei selvaggi che sono i giovani d’oggi. Dovrebbero insegnarlo a scuola, il bere vino.