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La moka Bialetti è la negazione della tradizione del caffé italiano
Il Gruppo Bialetti Industrie Spa è del fondo Nuo, controllato dalla famiglia Pao-Cheng di Hong Kong. La storia della tradizione del caffé della moka è molto, ma molto, più recente e meno tradizionale di quel che si crede
Era da un po’ che la Bialetti, anzi il Gruppo Bialetti Industrie Spa, se la passava malino. Dal 2018 almeno, da quando la Kpmg, società di revisione e organizzazione contabile, aveva segnalato delle irregolarità nei conti. Conti in crisi che avevano imposto la ricerca di un socio, o di un nuovo proprietario. Il nuovo proprietario è arrivato:Bialetti ha ceduto il controllo della società al fondo Nuo, controllato dalla famiglia Pao-Cheng, di Hong Kong.
Un cambiamento di proprietà come tanti se ne sono visti. Che però ha colpito una gran parte dell’opinione pubblica, degli amanti della tradizione del caffè all’italiana, non per forza sovranisti sia chiaro, ma affezionati alle "sane e vecchie" tradizioni.
Peccato che il caffè che esce fumante e gorgogliante dalla moka Bialetti è tradizionale fino a un certo punto. Una tradizione più recente delle sfide tra Coppi e Bartali, più giovane della tragedia di Superga che cancellò il Grande Torino, e anche dell’Italia democratica.
Perché il caffè all’italiana, quello che iniziò a essere apprezzato in tutta Europa già nel corso dell’Ottocento non era quello che usciva dalla moka Bialetti. Anzi, quello della moka era esattamente la negazione, il ribaltamento, della bevanda tradizionale.
L’apparizione della moka in Italia avvenne nel 1933. La narrazione aziendale vuole che Alfonso Bialetti abbia preso spunto dalla lisciveuse, un aggeggio che serviva a lavare i panni. Come spiegò alla Stampa Renato Bialetti, figlio dell’inventore della Moka, "all’epoca non c’erano le lavatrici e le donne usavano un mastello con fondo bucato: sotto il mastello, in un altro contenitore, mettevano cenere e sapone, la 'lisciva', che a contatto con l’acqua 'bolliva' facendo schiuma e salendo nella parte superiore dove c’erano i panni. Era il principio di funzionamento della caffettiera". Alfonso era eccitato dalla sua idea. La considerava rivoluzionaria. La sua invenzione doveva fare con il caffè quello che la lisciveuse aveva fatto con il lavaggio dei panni: diminuire il tempo necessario per completare una necessaria attività quotidiana.
Alfonso Bialetti aveva chiamato la sua invenzione Mokha (solo nel 1946 perse l’H), perché i chicchi di caffè arrivavano in cassettoni marchiati a fuoco con il nome di quella città dello Yemen, all’epoca il porto da dove arrivava la maggior parte del caffé in Italia, alla faccia dell’autarchia.
Alfonso Bialetti produceva le sue moke nella fonderia nella quale realizzava semilavorati in alluminio a Crusinallo, Lago d’Orta, Piemonte. Poi andava a venderle alle fiere. Non ne vendeva molte.
L’opportunità della vita, anzi dei suoi affari, arrivò nel 1939. Un conoscente lo presentò a Filippo Tommaso Marinetti. Lui gli fece provare il suo caffé. Il poeta lo sputò: che schifezza è questa? Bialetti gli parlò di futuro, di progresso. Marinetti guardò la sua caffettiera napoletana e lo fece uscire di casa. Progresso sì, ma fino a un certo punto.
L’Italia non è mai stata pronta all’innovazione della tradizione. E il caffè che gli italiani bevevano, era ultrasecolare: pentolino d’acqua, pentolino per il caffè, l’acqua bollente che dall’alto scende sui chicchi macinati. La caffettiera napoletana era un’evoluzione che non cambiava lo status quo: l’acqua calda scendeva dall’alto verso il basso, bagnava la polvere di caffè, ne catturava l’aroma e diventava bevanda.
Fu l’invenzione di Alfonso Bialetti a stravolgere tutto questo, a ribaltare il modo più antico, e almeno per gusto migliore, di bere il caffè. La moka non sfrutta la caduta lenta dell’acqua, ma la sua pressione violenta: l'acqua sale dalla caldaia in alluminio, tocca il caffè macinato, si insinua in un imbuto ed esce: il carnevale del caffè.
Il successo arrivò negli anni Cinquanta, anche grazie a Onassis. E qui, di nuovo leggenda aziendale e verità si mescolano. La storia vuole che Renato Bialetti si fece aiutare dall'armatore, che aveva incontrato nell'albergo dove stava provando con scarso successo a vendere il suo prodotto a dei francesi. Già allora, un primo tentativo di internazionalizzazione: gli asiatici di oggi sono solo l'ultima tappa.
Insomma, Onassis o meno, la moka fu un successo. Ma per questione di tempistiche, non di gusto. Serviva qualcosa di veloce che diminuisse il tempo d’uscita del caffè. D’altra parte c’era un paese da ricostruire, fabbriche dove andare. Al gusto si poteva rinunciare in nome della velocità. E si sa che quando si va veloce i contorni delle cose diventano incerti, sino a non capirci più niente.


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