(Ansa)

Sovranismi agroalimentari

Cibo sano? Attenti ai miti, ai bluff e alle ricette della nonna

Antonio Pascale

La pasta fatta con grani “antichi quanto Roma”, il chilometro zero, i campi concimati solo con il letame. Ecco tutti i dazi mentali che impediscono alle nostre coltivazioni di crescere

All’inizio per spiegare il commercio internazionale ci fu la parabola della matita. Raccontata da Milton Friedman che però, a sua volta, riprendeva un libro curioso, “I, Pencil”, di Leonard E. Read. Insomma, se questa matita potesse parlare (e parlava, appunto) ne racconterebbe delle belle: come sono fatta? Quante parti mi compongono? Quante persone servono per fare questa matita? Ma la matita ha incuriosito, oltre a Leonard E. Read e Milton Friedman, anche il giornalista Peter Marsh. Per la precisione, lui ha decostruito una matita Faber-Castell: “La grafite viene dalle miniere che si trovano in Cina, Sri Lanka e Zimbabwe. Poi però si deve miscelare la grafite con piccole quantità di un certo tipo di argilla che garantisce elasticità e dunque la scrivibilità. Dunque, Faber-Castell si rifornisce nelle miniere di Klingenberger. Il legno? Ci vuole quello giusto. Per le matite normali la Faber-Castell prende i pini piantati in 100 chilometri quadrati nello stato di Minas Gerais, in Brasile. Per quelle di alta qualità, ci vuole un’essenza pregiata di cedro che cresce in California e Oregon e viene spedita via nave prima a Tianjin, in Cina, dove viene lavorata e poi spedita a Stein”. Dopo “I, Pencil”, dopo Milton Friedman e Peter Marsh, è arrivato un TED Talk dell’ottimista razionale Matthew Ridley. Il quale, in un momento di estasi, si chiese: quante persone lavorano per noi per produrre questo iPhone? Se ai tempi del Re Sole, diecimila persone lavoravano a corte, oggi quante persone hanno collaborato per produrre un cellulare? Anche qui, peggio della matita. Difatti un cellulare è fatto da microchip, plastica e idee. Ebbene, considerate che un circuito elettronico stampato su un centimetro quadrato di silicio può essere disegnato da ingegneri diversi di ditte diverse dislocate in posti diversi.

Componenti poi vengono assemblati e lavorati da altre ditte con varie ubicazioni. Prendete la plastica. Si fa presto a dire plastica: significa dire petrolio, solo per citare un elemento fondamentale. Quante persone hanno individuato la vena petrolifera, quanti ingegneri hanno costruito pozzi, quanti operai ci hanno lavorato? E le cisterne per il petrolio? I cargo? Gli autotrasporti, le raffinerie, i chimici, i petrolchimici, i sindacati che difendono i lavoratori, i contestatori dei fossili che bloccano le strade? Poi ci sono le idee, il design, eccetera, e quindi facendo questo calcolo, in maniera molto approssimativa, alla fine si può ipotizzare che, non diecimila, ma milioni e milioni di persone hanno lavorato per noi per consegnarci il singolo iPhone. Dunque, altro che Re Sole con i suoi servitori, siamo ben oltre: fatte le proporzioni siamo i re dell’universo.  Sono racconti pedagogici, anche se glissano, e non poco, sullo sfruttamento delle risorse. Per esempio, non si racconta mai: quanti minatori estraggono carbone o rame? In che condizioni? Si parla tanto delle cose umane ma poco delle cose minerarie. Allo stesso tempo queste storie sono reticenti sulle questioni geopolitiche, tanto è vero che la risoluzione dei rapporti di forza viene affidata alla razionalità dei mercati. Illustrando come funziona (simbolicamente) il mondo di una matita, si mostrano anche le difficoltà che abbiamo nel leggere il mondo e governarlo al meglio. Insomma, il mondo è un assemblaggio di piccoli mondi e i piccoli mondi a loro volta contengono altri piccolissimi mondi, e così via, fino alle soglie dell’invisibile. Se così stanno i fatti, la razionalità vorrebbe per prima cosa che si studiasse il mondo, poi che si collaborasse per farlo più bello – e più bello significa anche più giusto, efficiente, con meno sprechi. Ma la domanda infame è: quanto siamo razionali? Perché razionalità significa anche analisi, studio, collaborazione, ascolto. Se facciamo una somma alla buona già arriviamo alla conclusione che non siamo razionali nemmeno per sbaglio. Anzi, c’è un rischio, stiamo andando incontro a una singolarità: il crollo della razionalità. Ci vuole troppo tempo per essere razionali, troppi mesi da passare su un problema per sviscerarlo, analizzarlo, controllare il risultato, confrontarlo con altri risultati. Chi ce l’ha, il tempo? Noi desideriamo solo andare nei talk-show o stare sui social per imporre la nostra idea di mondo. Nei talk e sui social, poi, più imponi un’idea di mondo bislacca, più aumentano le tue referenze; e più aumentano, più vieni pagato: di quale razionalità, dunque, stiamo cianciando? 


Il fatto è che di fronte alla complessità crescente del mondo, invece di navigare come spiriti curiosi e liberi alla ricerca dei fili, per illustrarli, scoprirne i nodi, nonché le varie nevralgie del sistema, al contrario ci isoliamo. Fisicamente e intellettualmente. Cerchiamo un ancoraggio. In fondo l’ancoraggio ha due vantaggi, ci fa sentire sicuri, non in balìa delle onde o incastrati nella ragnatela, e ci fa sentire speciali, orgogliosi della nostra comunità. Questo quando va bene. Quando va male, invece esageriamo, diventiamo individui egotici, convinti che basta dire “io sono speciale” per capire il mondo. Sovranisti. A proposito di re, di essere dei Carlo V sul cui impero non tramonta il sole, ci sentiamo tanto gradassi: altro non ci resta da fare che gettare la nostra longa manus, la nostra ombra su ogni dove. Il sovranismo in fondo è questo: crederci speciali, pensare di essere l’unico filo che regge la ragnatela e detestare gli altri che muovono fili. America first, tanto per dire, significa che ci saranno dei secondi, dei terzi e così via fino agli ultimi in classifica. Ma noi siamo convinti di essere i primi, mica gli ultimi. E dunque, posseduti dalla poetica del first, ogni piccolo campanile si sente così speciale da pretendere di fare a meno delle altre campane.


Va bene, roba da politologi ed economisti. Ma se stiamo scoprendo da poco l’ideologia sovranista, c’è da segnalare un settore in cui, noi italiani, siamo sovranisti da sempre. Un settore dove l’autarchia, cioè il sogno della vecchia destra sociale e quello della sinistra slowfoodista vanno a braccetto: l’agricoltura. Sono decenni che eccelliamo in sovranismo alimentare, che ci raccontiamo che i nostri prodotti sono di grande qualità perché sono italiani, dunque dobbiamo sia consumare italiano sia esportare prodotti italiani. Siamo autarchici e contemporaneamente, a mo’ di crociata, a fin di bene, spingiamo per conquistare il mondo con i nostri prodotti tipici. Quali sono le ragioni che ci suggeriscono che in agricoltura e nel sistema agroalimentare siamo migliori? Nella sostanza, siamo i migliori perché siamo antichi, il lavoro della terra è frutto dell’ingegno millenario dei contadini. La nostra agricoltura è ancora quella dei nonni, la nostra cucina è quella delle nonne: fatta in casa. Antico è l’aggettivo più usato quando parliamo di agricoltura o di prodotti agricoli e ci dice: siamo speciali, stringiamoci a coorte e facciamo da soli. 


In un ristorante romano al Pigneto, quartiere dove ho abitato nel 1989, un posto, a quel tempo, considerato povero e ora invece etichettato sotto la voce cool, insomma in questo ristorante ho visto un decalogo affisso al muro, incorniciato come se fosse una tavola della legge. I suoi dieci punti esprimevano – come mi ha detto la proprietaria – la filosofia del locale. Però a ben vedere esprimevano anche un’idea di agricoltura. Me ne sono segnati due, credo rappresentativi del nostro sovranismo alimentare che da decenni inquina la conoscenza. Primo punto: “I grani della nostra pasta sono antichi come Roma”. Vedete? Il concetto di antichità è il pilastro fondativo dell’agricoltura italiana. Considerando che Roma, secondo la nota convenzione, è stata fondata nel 753 a.C. e che l’Impero romano è caduto nel 476 d.C., capite bene che l’antichità di Roma fa fuori la quasi totalità della famiglia dei grani, a stento resterebbe il farro. Ma poi pensate se andando nello studio di un dentista o in una sala operatoria trovaste scritto “i nostri strumenti per operarvi sono antichi come Roma”, pensate alla corsa che vi fareste per scappare da quello studio medico, al grido di modernità, laser, anestesia, antibiotici. In agricoltura no: in agricoltura l’antico è cool. E il concetto di antichità non ci fa vedere i fili che innervano il mondo agricolo moderno. Secondo punto: “Verdure a chilometro zero dalle campagne di Minturno o Montelibretti”. Insomma, proprio a chilometro zero no, un conto è avere l’orto dietro al ristorante – cosa che quando abitavo al Pigneto potevo trovare: nella corte condominiale un condòmino allevava le galline – una cosa è prendere la verdura a Montelibretti o Minturno. Il primo è un comune di Roma, dal Pigneto fino a Montelibretti sono 60 chilometri, tra l’altro da percorrere sulla Salaria, strada abbastanza trafficata. Per non parlare di Minturno che è a 160 chilometri dal Pigneto. Qui tocca passare per la Pontina, una di quelle strade così trafficate che una volta, bloccato in coda, decisi di vendere la macchina. Dovendo andarci ogni giorno a prendere le verdure, niente di più facile che qualcuno faccia il giro con un camion, carichi la merce e scarichi il tutto ai mercati generali, sulla Tiburtina. I supermercati romani si servono infatti ai mercati generali, ma capite che una cosa è dire: io compro la verdura al supermercato, un’altra è affermare: io compro solo a chilometro zero, nelle campagne di Montelibretti o Minturno. Con la seconda vai in hype più facilmente. Punti come questi distraggono un po’ tutti dall’affrontare la complessa questione agricola. Il cibo è infatti una ragnatela. A forza di parlare di chilometro zero finiamo per ignorare di proposito dove nascono i fili e come si intrecciano fra di loro. 


Alla credenza dell’agricoltura antica e dunque speciale (e delle nonne gran cuoche: povere nonne), si aggiunge un’altra credenza che rende ancora più forte l’idea di specialità. Il nostro territorio: sole, mare, accoglienza, dieta mediterranea, quel: “Potremmo vivere di solo turismo”. Se siamo così speciali, unici, è chiaro che poi diventiamo sovranisti: perché dovrei corrompere il mio regno collaborando con gli altri? Vero è che alcuni prodotti, alcune specie di pomodori come il San Marzano, esprimono una vocazione territoriale. Gli studi di Luigi Frusciante e altri hanno dimostrato che, in un determinato areale, il San Marzano esprime fino a 400 geni, coinvolti nel sapore e nel gusto. Se invece spostiamo la produzione pochi chilometri più avanti la quantità di geni espressi si riduce a 150. Ma se questo è vero per alcuni prodotti, non lo è per tutti. A parte che il pomodoro è, come dice appunto Frusciante, visto il viaggio che ha compiuto dal centro America, il migrante di successo. Ma è altrettanto vero che questa presunta specialità a volte diventa ridicola. Poco razionale. E questa presunta specialità è stata raccontata da Slow Food in primis, cioè da quella corrente di gastronomia di sinistra che, fatti i conti, spingeva verso l’autarchia, stile destra sociale. La destra sociale, per dare a Cesare quel che è di Cesare, già alla fine degli anni 80 affiggeva manifesti con su scritto “comprate solo prodotti italiani”. Esempi dell’irrazionalità legata alla credenza della specialità del territorio? Eccone uno. Sempre a proposito di confini che dobbiamo proteggere dall’invasione: una volta lessi un bel paper di Paolo Giudici sui prodotti alimentari e il falso mito dei microrganismi autoctoni. Giudici scopre una brochure illustrativa di un evento tenutosi a Pollenzo in occasione dell’apertura del “Cheese” di Bra, la rassegna di Slow Food dedicata ai formaggi. Qui si sostiene che il Parmigiano-Reggiano è “autoctono”. Infatti la tecnologia di trasformazione del latte (definito “oro bianco”) in formaggio, realizzata in caseificio, vuole esaltare l’attività e la fermentazione dei batteri “autoctoni”, cioè quelli nati sul territorio. Altrimenti che senso avrebbe parlare di origine? E’ come dire che il “re dei formaggi” si accompagna con i batteri di importazione, o, se vogliamo, batteri “extra comprensorio d’origine”. 


Insomma, il Parmigiano-Reggiano, così unico, così particolare, diventa così buono, senza l’aggiunta di batteri estranei, grazie ai fermenti presenti sul territorio, dove si produce il latte, e non altrove! Vogliamo solo batteri di casa nostra e non di importazione, niente batteri immigrati. Capite l’origine di certe idee? Ma ditemi voi, uno che scrive dei batteri autoctoni e che disprezza quelli di importazione, poi, può seriamente scendere in piazza al grido di viva l’Europa, viva il Manifesto di Ventotene, eccetera? Metti un batterio autoctono oggi, mettine uno domani, poi finisce che applaudi Vannacci e il suo mondo al contrario. Ah, comunque, a proposito di razionalità, Paolo Giudici in quel paper si metteva con santa pazienza a cercare di spiegare che: a) le dimensioni dei batteri sono molto ridotte e il loro universo può essere anche di pochi millimetri, non certo grande come il comprensorio; b) il comprensorio non è omogeneo per temperature, piovosità, suolo e altro ancora; c) i microrganismi non conoscono la geografia, quindi, per loro è difficile distinguere tra Mantova destra Po e Bologna sinistra Reno o viceversa; d) i coliformi fecali sono i microrganismi sempre presenti e in gran numero nel latte crudo. E quelli sono i veri autoctoni! e) la razione alimentare delle vacche da latte è composta da una quota elevata di mangimi extra aziendali ed extra comprensorio; f) la qualità microbiologica delle acque d’irrigazione, visto l’alto grado di antropizzazione del territorio e l’intreccio tra acque d’irrigazione e acque scure, ha un alto grado di contaminazione da microrganismi fecali. Ma queste sono le famose e inutili spiegazioni razionali, il concetto di batterio autoctono vince su tutte le spiegazioni, proprio in ragione della suggestione e del fascino che certe parole hanno su di noi. Noi che siamo indeboliti dalla complessità. Noi che ci andiamo a nozze con certe parole vuote. Quei batteri sono alla fine un dazio alla conoscenza.


Se tendiamo a proteggere i batteri di casa nostra, cosa succede con cose più visibili? “Mangiamo a chilometro zero, italiano al 100 per cento”. Questo slogan, preso alla lettera, è un bel casino, nel senso di contraddizioni. Vediamo. Il prodotto del contadino amico mio, entro quei confini definiti, è meglio di quello che viene fuori dal confine? Ok, vada per il prodotto del contadino amico. Ma il vino del contadino? lo possiamo esportare? Certo, sì. Ma se c’è un altro, che so un francese, che pensa la stessa cosa che pensiamo noi, cioè anche i francesi hanno contadini amici che producono un buon vino, come la mettiamo con le esportazioni? Le mele? Un nostro vanto, insomma, non dovremmo, però poi chi se le mangia tutte le mele italiane? E l’olio? Sapete, per i non addetti ai lavori la questione dell’olio è un po’ vista nell’immaginario come la famosa invasione dei napoletani a Roccaraso. Non facciamo che lamentarci dell’invasione dell’olio d’oltre confine. Ovviamente, mentre ci lamentiamo, ignoriamo che abbiamo costi di produzione elevati, superiori a 5,7 euro per litro, con produzioni peraltro esigue, inferiori a 0,6 tonnellate per ettaro. Meno del 5 per cento delle aziende è professionale, prevale l’impegno hobbistico. Non ci si avvale di tecnici esperti, si va a caso, per sentito dire. Dovremmo ammettere che la nostra olivicoltura è vecchia come una certa idea di nonna buona e saggia. Che dovremmo invece innovare, aumentare i sesti di impianto, puntare sulla raccolta meccanizzata, perché quella manuale è un disastro, abbassa la qualità dell’olio. Ma invece di studiare soluzioni che diciamo? Colpa degli altri, il Marocco, la Tunisia, quelli lì ci invadono, mettiamo dazi. Anche perché incredibile e orribile a dirsi: anche gli inglesi cominciano a piantare olivi, anche i pakistani, gli indiani, non c’è più religione né Mediterraneo. Dove andremo a finire?


La pasta? Avete visto quanti meme sulla pasta? Tipo la fidanzata straniera che fa lo scherzo al fidanzato italiano e spezza gli spaghetti e quello diventa pazzo, come se avesse oltraggiato la bandiera. Avete visto quanti inviti: mangiate pasta italiana! Ma cosa dicono i numeri sulla pasta? L’industria molitoria italiana consuma annualmente circa 5,3 milioni di tonnellate di granella di frumento duro per la produzione di semole che al 95 per cento vengono utilizzate per la produzione di pasta. Facciamo i conti: a fronte di una produzione italiana di 3,7 milioni di tonnellate di grano duro, è facile intuire che le importazioni di frumento duro da sempre sono state necessarie per la nostra produzione di pasta. Anche per una questione di orografia territoriale. Che come sappiamo varia da osso montuoso a poca polpa di pianura. Tocca dircelo: l’Italia non è mai stato un paese autosufficiente. Poi occorre specificare che dei 3,67 milioni di tonnellate di pasta prodotti in Italia solo il 40 per cento è destinato al consumo interno, mentre tutta la restante parte è destinata ai mercati esteri, dove rappresenta un’eccellenza della nostra produzione agroalimentare. Capite la contraddizione, consumiamo italiano ma esportiamo anche italiano.

Nella sostanza, in campo agricolo, noi italiani sono decenni che mettiamo dazi mentali al nostro prossimo. Il dazio è una barriera alla conoscenza. Dunque finisce che ci isoliamo nel tempo che fu, dove tutto era più facile e si potevano mangiare anche le fragole. Eh, le ricette come le faceva la nonna. Che poi quanti anni ha ‘sta nonna italiana? Visto che io potrei essere nonno e però sono cresciuto, per fortuna, con i Plasmon e l’abbondanza alimentare e industriale degli anni 60. I dazi alimentano insomma la convinzione che come coltiviamo noi nessuno mai, che se coltivi italiano, in ragione di non si sa bene quale qualità intrinseca, esce fuori quella “italianità” che tutti ci invidiano. Il provincialismo, i campanili, le polemiche tra i contadi e i marchesati: pure quelli sono dazi. Che non ci fanno vedere come funziona e si assembla il mondo. Roberto Brazzale, fondatore della Brazzale S.p.a, ha spesso ragionato sul concetto di made in Italy. Dice: “Oggi si definisce made in Italy un formaggio Dop, fatto a Brescia ma con latte proveniente da vacche acquistate al tempo in Baviera, nutrite con soia brasiliana, mais americano ed erba medica disidratata spagnola. Manze inseminate con seme di toro canadese, munte in sale di mungitura con tecnologia tedesca e curate da bravi bergamini pakistani o albanesi. Latte poi trasportato da autista bosniaco, cagliato da un casaro moldavo, poi conservato in un magazzino da un bengalese, il tutto poi ottenuto su un podere concimato con concimi canadesi o tedeschi, distribuito con macchine americane che a loro volta sono il risultato dell’assemblaggio di pezzi diversi”. 


Il discorso di Brazzale vale per tutto. Molto difficile trovare un esempio di prodotto totalmente autarchico. Pensate solo al concime. Sicuramente è vero che conoscete il contadino vostro amico che produce il prodotto più buono del contadino amico mio. Ci credo. Ma concentriamoci su un elemento: i concimi. No, fermi, non mi dite che il contadino vostro amico concima solo con letame naturale. Perché quello le vacche non ce le ha. A parte il fatto che il letame è povero, rispetto ai concimi, di macro e micro elementi. A parte che i quattro stomaci delle vacche non sono azotofissatori, quindi se non entra azoto non esce azoto. Una vacca va nutrita per produrre letame e questo significa organizzare l’azienda in un certo modo, mettere colture foraggere o acquistarle. Insomma, senza che ci mettiamo a fare i calcoli, fidatevi. I quantitativi di elementi nutritivi presenti nel letame sono bassi, sono stati bassi per millenni e infatti per millenni la resa media delle colture è stata sempre la stessa. Per i cereali si è attestata su una tonnellata a ettaro. La produzione è cominciata a salire solo di recente, negli anni 50, quando sono arrivate alcune innovazioni, tra cui, oltre alla genetica, la difesa delle piante, anche la fertilizzazione. Quindi i concimi vanno usati, se la pianta non si nutre non cresce. E’ esperienza comune, anche il vostro geranio sul balcone può presentare problemi di crescita qualora la fertilità del terreno contenuto nel vaso si dovesse esaurire. Quindi concimi. Da dove vengono i concimi che il vostro contadino di fiducia acquista dal rivenditore di fiducia e sparge sui campi ogni volta che deve produrre l’insalata che poi venderà a voi e ai mercati di Campagna Amica? Partiamo da fosforo e potassio. Di base, le fonti usate per i fertilizzanti sono materie prime minerali presenti in natura sotto diverse forme, e in diverse zone del pianeta. C’è qualcuno che le estrae, pure questo, in fondo, è un lavoro antico e parecchio invalidante. Fosforo e potassio devono venire poi trasformati da minerali in elementi nutritivi. Come? Ci vogliono industrie moderne anche per salvare le nonne italiane che ti fanno la ricetta tipica. Anche perché la tecnologia di trasformazione industriale è essenziale, per produrre con meno sprechi, e per ottenere elementi nutritivi fosfatici o potassici più o meno evoluti, più o meno efficienti. Più innovativa è la tecnologia, più gli elementi nutritivi sono assorbiti in maniera efficiente dalla pianta e non inquinano falde e terreni. Passiamo all’azoto. L’elemento azoto costituisce oltre i tre quarti dell’aria che respiriamo. Che sfiga: le piante non riescono a sintetizzarlo. Tranne le leguminose che hanno trovato il modo di associarsi a dei batteri. Un mutuo e vantaggioso scambio. I batteri nutrono le piante di azoto, le piante nutrono i batteri con zuccheri. Purtroppo questa associazione è molto stretta, i batteri non si associano ad altre piante (anche se si sta provando a farlo e sarebbe una gran bella rivoluzione). Dunque, per produrre l’azoto devi sintetizzarlo. Difatti una quota significativa dell’azoto usato per i fertilizzanti è ottenuta tramite processi industriali che trasformano l’azoto presente nell’aria in ammoniaca e successivamente in altre forme azotate solide. Parliamo di processi industriali della chimica di base, per spezzare i legami tra le molecole di azoto ci vuole molta energia e dunque gli idrocarburi. Inoltre, per alcuni fertilizzanti viene usato anche il cosiddetto azoto organico, una forma presente nelle sostanze organiche che, opportunamente trattata, a contatto con il terreno, si trasforma in azoto assimilabile per le piante. Nella sostanza anche chi si diletta per far crescere bene le sue primizie e venderle sta consumando idrocarburi.


Il cibo come una comune matita racconta la ragnatela che sostiene e forma il mondo moderno. In questa ottica è chiaro che la questione dei dazi è proprio sbagliata. Ma la questione dazi è economica e culturale. Ogni volta che ci raccontiamo di quanto siamo speciali e migliori degli altri, creiamo un dazio e una barriera alla conoscenza. Purtroppo l’idea di specialità è un’ossessione e un gingillo. Il presidente americano ritiene che i dazi possano essere utilizzati per risolvere qualsiasi cosa: aumentare le entrate fiscali, sostituire le tasse nazionali, eliminare il deficit commerciale riequilibrando gli scambi, riportare i posti di lavoro manifatturieri negli Stati Uniti, proteggere la sicurezza nazionale. Una consistente fetta di analisti economici spiega e rispiega che sì, i dazi possono, in effetti, a volte aiutare a raggiungere alcuni di questi obiettivi. Ma data la natura complessa e interconnessa di questi problemi, usare le tariffe per risolvere uno di essi potrebbe ostacolare la capacità del paese di risolverne un altro. Per esempio, ci fanno notare alcuni economisti che, nell’anno fiscale 2024, il governo federale degli Stati Uniti ha speso un totale di 6,4 trilioni di dollari. Eppure nel 2024, gli Stati Uniti hanno importato solo 3,3 trilioni di dollari di beni. Anche un dazio del 100 percento su tutti i beni importati non sarebbe sufficiente a finanziare il governo federale e qualsiasi dazio a quel livello taglierebbe drasticamente le importazioni, riducendo le entrate e infliggendo costi enormi all’economia.


Detto questo: se il mondo è e sarà sempre di più una ragnatela, se pure l’orto dietro casa necessita di idrocarburi e di un’industria chimica tedesca, se i semi che compriamo al supermercato per far crescere le insalate sono protetti da brevetto e alimentano gli introiti di ditte sementiere, magari francesi o israeliane, e se noi, infine, già abbiamo così serie difficoltà a individuare gli elementi che compongono una matita, possiamo mai occuparci di tutti i fili che ci legano al nostro prossimo? Qua due sono le cose: o citiamo Dante e decidiamo che la nostra semenza sia seguire “virtute e canoscenza” e quindi ci diamo da fare per analizzare e migliorare il mondo, oppure avremo un crollo della conoscenza. Crollo del resto che di tanto in tanto fa già capolino, e lo possiamo vedere nei video acchiappa like, nelle narrazioni semplici, efficaci, retoriche. Rimedi? Io non penso che ce la faremo. Insomma, nei racconti di fantascienza, a parte quelli catastrofisti da day after, si descrive un uomo tecnologico, transumano, spaziale ecc., ma sicuri che sia questo l’orientamento? Non è che invece alla fine, vista la difficoltà a ragionare sulla complessità, visto che è difficile immaginare una campagna elettorale o una gestione amministrativa fatta di continui approfondimenti e letture, insomma visto tutto questo, sicuri che diventeremo transumanisti? Forse come specie ci salveremo diventando una delle 500 specie di primati. Potremmo magari, vista la follia, la nevrosi, l’ansia, le mancanze, vista l’incapacità di seguire i fili del mondo, deciderci per una vita più semplice, con meno coscienza e riflessioni esistenziali? Da primati appunto. Nelle foreste che piano piano in un mondo semplificato occuperebbero il globo. Senza pensare ai fili, una gestione minima della vita, a bassa coscienza. Che vi devo dire: visti i dazi culturali che ci sono in giro, ci metterei la firma. Voi no, non siete d’accordo, allora non vi resta che seguire con curiosità i fili che creano la trama del mondo.

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