Il sequel di Smetto Quando Voglio e la necessità di ritrovare serialità nella commedia italiana
SQV-Masterclass di Sydney Sibilia è un riuscitissimo secondo capitolo che dà una nuova prospettiva al cinema commerciale: rielaborare il modello americano e adattarlo al nostro modo di raccontare per immagini
C’è bisogno di film come Smetto Quando Voglio. C’è bisogno, cioè, di universi cinematografici, di film tra loro collegati, di storie che siano (quasi) inesauribili e in cui poter crescere – proprio come si fa con una pianta: con cure e attenzione – un immaginario potenzialmente infinito. Non hanno senso le chiacchiere di chi, alfiere di bei tempi andati, oggi si trascina sul pulpito della critica cinematografica e tuona: “Non facciamo gli americani!” (Ognuno ha le proprie ragioni e i propri punti di vista; ma qui, in questo caso specifico, è necessario fare un passo indietro, tutti noi, e provare a guardare il quadro generale da una prospettiva più ampia).
C’è bisogno invece di capire e modificare a nostra immagine e somiglianza il modello – cinematografico e televisivo – americano, per riavvicinare la serialità al modo italiano di lavorare dietro la macchina da presa. E c'è soprattutto il bisogno di tornare a parlare di cinema commerciale, non quello stupido e volgarotto del “oddio, mio marito!”, e nemmeno quello più ruffiano del romanticismo smielato del “ti amo” a tutti i costi. (La La Land insegna: l’amore non è sempre a lieto fine).
Sydney Sibilia, trentacinquenne di Salerno, Matteo Rovere e Domenico Procacci questa cosa – “bisogna dare una prospettiva al cinema commerciale!” – l’hanno capita. Oggi nelle sale, arriva Masterclass, che è un riuscitissimo secondo capitolo di Smetto Quando Voglio: indipendente rispetto al primo, complementare in certi momenti; necessario per l’introduzione del terzo capitolo (che ha già un nome, Ad honorem, e una data di uscita fissata più o meno per fine anno). È un film più compatto e meno sincopato del precedente (leggasi: si fa seguire molto di più, ed è molto più lento e digeribile). La fotografia è la stessa, psichedelica e verdastra. Cambiano gli sceneggiatori (a Sibilia, si aggiungono Luigi Di Capua e Francesca Manieri), e il cast si arricchisce.
Lasciate perdere la storia (o meglio: non lasciatela perdere, capitela; poi mettetela da parte); quello che conta qui è la struttura narrativa: studiata perché il primo e il secondo film si possano vedere insieme, uno dopo l’altro. E perché il terzo capitolo non risulti inutile, ripetitivo, oscenamente già visto. La Banda dei Ricercatori (“Il braccio laureato della legge”, sfotte un nuovo poster promozionale) è sempre la banda dei precari, dei laureati e dei super-qualificati. Si uniscono i cervelli in fuga: quelli che hanno lasciato, costretti, l’Italia. Si aggiunge la polizia, incapace di combattere per limitazioni effettive le smart drugs; e si delinea un super-criminale, interpretato da Luigi Lo Cascio, che fa tanto villain americano.
Progettare una serialità cinematografica significa non solo pensare al cinema come a un’industria (un film non finisce mai, non veramente; torna la vita negli studios e la manodopera è in continua attività), ma pure ripensare al pubblico, rivolgersi a un target differente (chi parla ai trentenni?) e provare a sviluppare un filone più robusto e consistente di storie. Avevamo Brancaleone, Fantozzi e i personaggi di Sergio Leone. Oggi chi sono gli eroi del grande schermo? I sequel, come pure i remake, non sono il male per chi vuole – e deve – ripartire. Rilanciare brand, pensarne di nuovi; credere – e credere sul serio – a un cinema che possa essere multimediale (che non si fermi, cioè, ai contorni del grande schermo, ma che possa diventare fumetto, libro, videogioco e serie tv). Una storia che viene narrata sotto più aspetti, più o meno approfonditamente e con più risvolti, non è una storia “da meno”. È una storia, anzi, che punta al futuro.
Politicamente corretto e panettone