In realtà Tomas Milian era oscuramente refrattario alla volgarità
Che cosa non avete letto nei coccodrilli schizzinosi di ieri
Ieri i coccodrilli ricordavano in coro che Tomas Milian recitò per Pasolini. Qualcuno l’ha messo perfino nel titolo. È vero, è falso? Tutto sta ad accordarsi sui termini. Se starsene immobili in un tableau vivant che riproduce la “Deposizione” di Pontormo può dirsi recitare, allora sì, Tomas Milian recitò per Pasolini. Faceva il soldato romano appoggiato a un rudere di colonna, una comparsa che non figurava nei titoli di testa e neppure, a ben vedere, nel modello originale; perché per adattare quel dipinto verticale al formato orizzontale del fotogramma Pasolini dovette aggiungere tre figure ai lati. Uno era appunto Tomas Milian, con i capelli biondo-rossicci e una daga in pugno; glabro, per giunta, come presto ci saremmo disabituati a vederlo. Nel tableau c’era pure Laura Betti, che era stata la sua iniziatrice alla “dolce vita” quando, nel 1959, era atterrato a Roma da New York; ma lui non dovette dar molto peso a quella posa da bella statuina nella “Ricotta”, tanto da non menzionarla neppure nell’autobiografia picaresca “Monnezza amore mio” (Rizzoli).
Peccato però che Pasolini non l’abbia considerato, l’anno dopo, per il “Vangelo secondo Matteo”, nel suo casting divagante che vide scorrere, tra i volti possibili di Gesù, perfino Kerouac ed Evtusenko: immagino che Tomas Milian sarebbe stato un Cristo altrettanto ruvido, ma meno scolastico, di quello che incarnò Enrique Irazoqui (e oggi avremmo il piacere di ricordare un film in cui il giovanissimo Agamben, nel ruolo dell’apostolo Filippo, era stato discepolo del Monnezza). A ripensarci, per quel che valgono queste chimere, Milian sarebbe stato perfetto anche come accattone, come Edipo, come il messia corruttore di “Teorema”; e a tutti avrebbe tolto la zavorra del didascalismo che fiacca il cinema di Pasolini. Era selvaggiamente mimetico, come solo alcuni grandi attori sanno essere, quelli che più soffrono di un’identità appena abbozzata, lasciata a metà, come un’argilla destinata a non rapprendersi mai – da quando, dodicenne, vide il padre spararsi un colpo al cuore. Da straniero – l’unica cosa buona che abbiamo importato da Cuba, generi voluttuari a parte – il camaleontico Milian era riuscito ad acciuffare tutti i bandoli di quello “gnommero” promiscuo che è la società romana, dove tra una nobildonna, un cardinale, un borghese annoiato e un bandito c’è spesso un solo passaggio (se pure c’è). Bastano un paio dei suoi film migliori a rendere superflua la truffa estetica e morale della Roma della “Grande bellezza”, a far risuonare le note stonate della Roma di “Suburra”.
I due ruoli che lo hanno consacrato, il ladruncolo Monnezza e il commissario Giraldi – via via più indistinguibili – ne hanno fatto una pietra di paragone della volgarità, un arbiter inelegantiarum. Eppure, alla volgarità Milian sembrava oscuramente refrattario. Perfino nei ruoli più truci e più trucidi – non malgrado quei ruoli, come insinuavano ieri in coro i coccodrilli schizzinosi – aveva un elusivo tratto signorile, impossibile da camuffare (qualcosa di simile, su scala ben più ridotta, si potrebbe dire di un’altra straniera del cinema italiano: la franco-algerina Edwige Fenech, che attraversò tutti i rituali di degradazione della commedia sexy conservando una strana regalità). Per questo ho un sussulto di fastidio quando, in questi giorni, qualcuno lo accosta alle miserie della canaglia grillina, e mi vien voglia di vendicare l’onore del Monnezza. Se proprio vi impuntate a trovare un legame, consiglio di ricorrere a una battuta da “Delitto a Porta Romana” come replica agli scellerati che vogliono introdurre il vincolo di mandato: “Insomma tu sei di quelli che hanno bisogno di un mandato. Allora senti: considerati mandato affanculo”.