Metamorfosi dell'horror
Come è cambiato il genere cinematografico dell'orrore da "non aprite quella porta" a "non scaricate quell'app"
Non aprite quella porta. Non prendete l’ascensore. Non perlustrate la soffitta. Lasciate le cantine ai topi. Niente cimiteri, altri posti sono più adatti alle passeggiate di notte. Non spegnete la luce. E’ l’horror a bassa tecnologia. Anche un po’ ingenuo. Funzionava meglio prima che “Scream”, la saga diretta da Wes Craven a partire dal 1996, prendesse in giro gli stereotipi del genere, certificando che i bianchi vivono più a lungo e la rassicurazione “torno subito” porta una gran sfiga.
L’horror più tecnologico rivela misteriose presenze e ectoplasmi quando la pellicola fotografica viene sviluppata (e vale come antenato del sottogenere “found footage”: le telecamere continuano a registrare dopo che l’operatore viene assalito, smembrato, contagiato). Prima ancora c’era lo specchio, che in “Per favore non mordermi sul collo” – regia di Roman Polanski e con Sharon Stone, era il 1967 – riflette l’allegra compagnia ma non il vampiro della Transilvania. Poi arriva il telefono, ed è una festa: chiamate da maniaci che dicono “so cosa hai fatto l’estate scorsa”, segreterie che sputano minacce, batterie che si scaricano quando bisogna chiamare la polizia (o l’esorcista). “Non guardate quella videocassetta” è il leitmotiv della saga di ispirazione giapponese “The Ring”: se lo fate, una femmina incazzata uscirà dall’elettrodomestico (che ormai ai millennial pare antico quanto l’argenteria della nonna). Gli amici non si scaricano; e se proprio avete la tentazione evitate di farlo sui social network, suggeriva un film intitolato “Unfriended”. Nell’inquadratura, solo lo schermo di un MacBook. In quell’occasione il russo Timur Bekmambetov, produttore del film, osservò che la cronologia del computer è l’equivalente contemporaneo del monologo interiore di Virginia Woolf: riflette tutto quel che ci passa per la testa, smozzicato e senza filtri. L’escalation viene registrata dalla serie tv intitolata “Scream”, anno 2015. In scena va il cyberbullismo, il maniaco ha cambiato maschera per questioni di diritti. E del resto l’Urlo di Munch non fa più paura a nessuno. Ormai compare sui cuscini antistress, esiste nella versione pupazzo gonfiabile e in una foto che gira su Twitter gli hanno messo al posto delle orbite vuote i buchi di una presa elettrica. “Non scaricate quell’app” è l’ultima frontiera – fino a questo momento – delle sciocchezze da non fare, ormai viviamo più su internet che altrove (ammesso che la distinzione abbia senso). Sta in “Bedevil” di Abel Vang e Burlee Vang, nelle sale da giovedì scorso. Scaricata l’app, una specie di Siri che come icona ha un farfallino, il malcapitato adolescente sarà inseguito dalle sue peggiori paure. Anche queste personalizzate, clown o ragni o babau. Lo stesso giorno il New Times pubblicava un articolo intitolato “How to See What the Internet Knows About You (And How to Stop It)”.
Politicamente corretto e panettone