Essere Cary Grant
Le insicurezze dell'attore, nascoste dietro ai riflettori e ai flash, raccontate nell'ultimo documentario del regista Mark Kidel
Tavolara, Sardegna. Quanto è difficile costruirsi una vita e renderla perfetta, facendo credere al mondo una realtà che è ben lontana dalla verità? Come si può passare un’esistenza costantemente sotto la luce di riflettori e di flash, nascondendo però ogni volta le proprie e molteplici ombre? Quella di Cary Grant (1904-1986) non fu affatto semplice e ne fu consapevole lui per primo quando dichiarò di condividere un desiderio con molte persone nel mondo – “essere Cary Grant” – “l’uomo che ti rendeva felice solo a guardarlo” – come lo definì la critica cinematografica Pauline Kael – l’attore gentile, "il migliore e il più importante della storia", secondo Howard Hawks che lo diresse nella celebre slapstick comedy “Susanna” con Katharine Hepburn e ne “La signora del venerdì” accanto a Rosalind Russell. Solo Alfred Hitchcock, grazie al suo genio e alla sua perfidia, riuscì a rivelarne più di ogni altro il suo lato oscuro, mantenendone sempre intatto il fascino ed evidenziandone la bravura, tanto che da quello speciale legame artistico vennero fuori “Il sospetto”, “Notorious”, “Caccia al Ladro” e “Intrigo Internazionale”, più che film, degli autentici capolavori. Sì, perché Grant – il cui vero nome era Archibald Alexander Leach – non stava affatto bene, era continuamente alla ricerca di sé e per riuscirci, ricorse ad una cura terapeutica con l’LSD, all’epoca legale in America, partecipando a due sedute settimanali per tre anni di seguito. Lo scrisse Marc Eliot nella biografia dedicata al divo inglese (nacque a Bristol) e lo conferma il regista Mark Kidel nel documentario “Becoming Cary Grant”, che dopo l’anteprima mondiale a Cannes, sarà trasmesso in esclusiva per l’Italia da Sky Arte HD il prossimo ottobre con il titolo “Cary Grant-Dietro lo specchio”.
Nel frattempo, è stato presentato in esclusiva a “Una notte in Italia”, il festival del cinema di Tavolara ideato ventisette anni fa da Marco Navone e diretto da Piera Detassis che, insieme, lo organizzano con l’Associazione Argonauti e Cinematavolara in collaborazione con l’unico canale televisivo italiano che oltre all’arte, è interamente dedicato al design e alla cultura. In preda a dubbi, a insicurezze nate da traumi infantili (venne abbandonato dalla madre Elsie quando aveva solo nove anni) e alla scoperta di amare verità (venti anni dopo, capì che era stato suo padre, oramai morto, a far rinchiudere la donna in un ospedale psichiatrico per potersi rifare una vita con la sua amante), a cinquant’anni Grant decise di esplorare i suoi traumi, le sue ansie e i suoi lati più oscuri, e tutti questi aspetti vengono fuori nel film che, nella versione originale, è raccontato in voice over da Jonathan Pryce. Quando poteva, andava a Bristol a trovare sua madre, ma non la fece mai andare in California, probabilmente perché si era creata un’evidente distanza tra quei due mondi, ma questo non ci viene spiegato da Kidel, che ci regala invece foto inedite e filmini girati proprio dall’attore. Nessun accenno alla sua più che presunta omosessualità (nelle varie autobiografie, più o meno autorizzate, si legge che ebbe una lunga relazione con il costumista Orry Kelly e poi con Randolph Scott, confermate con foto in bianco e nero anche sul web), ma si ricordano solo le tante attrici con cui lavorò e i suoi cinque matrimoni, consumati e finiti sempre in gran fretta, sta a voi immaginarvi il perché. A quanto pare, dalla prima all’ultima moglie (di quarantaquattro anni più giovane), tutto venne fatto per tenere nascosta quella verità impossibile da rivelare (ancora oggi) in quel mondo di cinema e di apparenza dove Grant entrò poco alla volta, dopo essere stato un funambolo nei circhi inglesi e a Broadway. “Passi una vita a diventare un attore di Hollywood, ma poi?” – dichiarò. Una domanda che deve essersi posta fin troppe volte, fino a decidere di lasciare il cinema per passare più tempo con la figlia Jennifer. Indimenticabile la sua espressione davanti alla standing ovation del Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles: era il 1970 e per la prima volta riceveva un Oscar alla carriera. Emozionato, con quell’aria sorniona e allo stesso tempo malinconica, sembra pensare: “Finalmente vi siete ricordati di me; sono stato un altro per troppo tempo, poco importa se fino ad ora non ve ne siete accorti”.
Politicamente corretto e panettone