Delon, l'ultimo samurai del cinema
La Francia celebra l'eterno ragazzo malinconico e il suo rapporto con Jean-Pierre Melville che lo lanciò ne “Le Samouraï”. Un legame che dal cinema arrivava alla politica
Parigi. “Non esiste solitudine più profonda del samurai, se non quella della tigre nella giungla”. È la frase che appare all’inizio di uno dei capolavori del polar francese, “Le Samouraï” (in italiano “Frank Costello faccia d’angelo”), diretto da Jean-Pierre Melville, il film che segnò l’avvio del rapporto professionale tra colui che è considerato come uno dei precursori della Nouvelle Vague e il divo del cinema d’oltralpe: Alain Delon. M, il magazine del Monde, nel suo ultimo numero, ripercorre a cinquant’anni dall’uscita nelle sale di “Frank Costello faccia d’angelo” la prolifica relazione tra i due enfant terrible (“Les enfants terribles”, è, tra l’altro, uno dei primi film di Melville, tratto dall’omonimo romanzo di Jean Cocteau) di Francia. Perfezionisti, taciturni e solitari, Delon e Melville furono una delle coppie più affascinanti del cinema francese, e la loro intesa, dietro e davanti la macchina da presa, non si è mai scalfita nel corso degli anni.
A differenza degli altri attori che faticavano ad accettare il carattere ruvido di Melville durante le riprese, Delon ne amava l’esigenza folle, la meticolosità esasperata, che rispecchiava anche i suoi personaggi. Come Frank Costello, appunto, il killer solitario e glaciale che si costruisce meticolosamente un alibi inattaccabile per sfuggire all’ispettore, interpretato da François Périer, che indaga sulla morte del padrone di un night club. Il Monde, nel suo lungo articolo, scritto nel centesimo anniversario della nascita di Melville, definisce l’amicizia tra i due “ultimi samurai” della settima arte “fusionnelle”. Un’amicizia che era nata alla fine degli anni Cinquanta, all’Hotel Élysée-Matignon, nel cuore della capitale francese.
Delon non era ancora stato consacrato da Luchino Visconti in “Rocco e i suo i fratelli”, e Melville gli fa scrivere il suo nome sull’agenda Hermès che aveva sempre con sé: un’abitudine del maestro del polar francese, per augurare un futuro ricco di successi ai giovani attori emergenti che incrociava nelle strade di Parigi. “Aspettavo il giorno”, disse Melville. Il giorno in cui quest’ultimo intravede nel sopracciglio deloniano, dalle linee orientali, giapponesi, il perfetto interprete di Frank Costello. Il giorno in cui Delon diventa un mito. “E Melville creò Delon”, scrive il magazine del Monde in copertina.
Come Roger Vadim lanciò Brigitte Bardot nel celebre “Et Dieu créa la femme” (in italiano “Piace a troppi”), Melville fissò per sempre il mito deloniano con “Frank Costello faccia d’angelo”. Inseparabile dal suo trench e dal suo Borsalino, Costello/Delon è “un individuo eminentemente tragico che si riassume ai suoi gesti e al suo sguardo”, “l’ultimo simbolo dell’onore in un mondo di compressi”, un samurai che “sacrificandosi sfiora l’assoluto”. Con Melville, girò “I senza nome” e “Notte sulla città”, ma è con “Le Samouraï” che Delon diventa un’icona. Delon ammirava Melville e Melville ammirava Delon. “Le loro conversazioni escludevano gli altri. Volevano essere soli per parlare e questo si sentiva molto”, osserva oggi Rémy Grumbach, nipote del regista (Grumbach era il suo vero cognome di nascita, Melville è il nome di battaglia che scelse quando combatteva nella resistenza francese durante la seconda guerra mondiale, in onore dello scrittore statunitense Herman Melville).
Tra i punti di incontro tra Melville e Delon c’era anche il gollismo. Delon era attratto dagli eroi di guerra e si è sempre dichiarato gollista. Melville aveva partecipato alla Liberazione e aveva visto nel generale cinquantenne che lanciò un appello ai suoi concittadini dai microfoni di Radio Londra il futuro della Francia. Lo scarto generazionale tra i due creerà un rapporto di filiazione. Delon, ai tempi di “Frank Costello faccia d’angelo”, ha poco più di trent’anni. E per Melville, che ne ha più di sessanta, diventa il figlio che non ha mai avuto. “Delon è un personaggio segreto, ripiegato su sé stesso, introverso in maniera inimmaginabile. È della razza di coloro che conservano la loro gioventù intatta e la freschezza della loro adolescenza. Ha conservato l’universo stesso della sua infanzia con le sue passioni taciturne e le sue mitologie. Esiste in lui un gusto per l’autodistruzione pienamente romantico. Un gusto romanzesco per la morte che è certamente dovuto al fatto che ha fatto la guerra in Indocina da giovanissimo”, dirà di lui il regista. “Melville conosceva meglio di me il mio personaggio”, risponderà Delon. Lui l’eterno ragazzo dallo sguardo melanconico (“La mélancolie d’Alain Delon”, è un bel libro appena uscito in Francia per le edizioni Pierre-Guillaume De Roux che racconta la parabola dell’attore francese, la sua solitudine e i suoi amori, la sua ascesa e i suoi momenti bui, sullo sfondo delle Trente Glorieuses) che aveva scoperto la solitudine a quattro anni, quando i suoi bruscamente si separarono, che a diciassette anni era in Indocina con la marina, che a ventitré anni si innamorò di Romy Schneider, che a venticinque anni era già il più grande attore francese. Lui l’ultimo samurai del cinema.