A lanciare Jerry Lewis fu una perfetta coppia comica con "l'italiano"
Con Dean Martin faceva soldi come la zecca di stato
Non sempre sappiamo come iniziano le grandi coppie (i litigi si stampano meglio nella memoria). Jerry Lewis ricorda benissimo quando si mise con Dean Martin, il 24 luglio 1946, Atlantic City. Aveva promesso un numero comico al proprietario del locale, in coppia con il cantante di origine italiana Dino Crocetti. Qualche mese prima lo aveva incontrato a Broadway, fu un colpo di fulmine. Dean Martin era sul palco che cantava, serio davanti al microfono. L’ebreo di Newark – luogo di nascita condiviso con Philip Roth – era spuntato da dietro le quinte con una giacca da cameriere, sbraitando: “Chi ha ordinato una bistecca?”.
Addio al mitico Jerry Lewis, maniaco perfezionista che si fingeva picchiatello
Uno che sta sul palco e si vede rubare la scena ha l’impulso di uccidere. Dean Martin invece sorrise: il diciannovenne Jerry Lewis vide in lui un fratello maggiore, oltre che un collega con cui dividere l’affitto. Da qui la promessa di uno spettacolo che non esisteva. “Ditemi che non siete soltanto un mimo e un cantante”, li minacciò il proprietario, del tipo che se lo scontenti ti butta nell’oceano con gli stivaletti di cemento. Per alleggerire la tensione prima di andare in scena, i due mangiavano pastrami. In “Dean & Me - Una storia d’amore” (Sagoma editore, 2010) Jerry Lewis racconta di aver conservato nella cassetta di sicurezza la carta di quei panini: “La grande comicità e il grasso del pastrami durano per sempre”. (E chissà la faccia degli eredi, all’apertura dello scrigno).
Nacque una coppia comica che sembrava indistruttibile, e si sfasciò dopo dieci anni. Tra molti pettegolezzi, se non altro perché – son sempre parole di Jerry Lewis – “facevamo soldi come la zecca di stato”. Stare sul palcoscenico, andare in tournée, firmare autografi, girare film insieme logora. Alla fine uno non sopporta più l’altro, suggerisce Neil Simon nella commedia “I ragazzi irresistibili”. Al cinema, diretti da Herbert Ross, i vecchi attori del vaudeville erano Walter Matthau e George Burns: uno si lamentava per gli sputi – “lo fai apposta a pronunciare certe parole” – l’altro per le ditate contro il petto. Per fare ridere serve un comico e una spalla, e non sempre i due sono d’accordo sui rispettivi meriti. Figuriamoci quando uno canta e l’altro disturba, inciampa, fa il verso, interloquisce con voce infantile e goffaggine da schlemiel, il giovanotto pasticcione e disadattato della tradizione ebraica.
“L’italiano non è male, ma che me ne faccio della scimmia?”, commentò Louis. B. Mayer, boss della Metro Goldwyn Mayer (era nato Eliezer Meir a Minsk, anno 1882) dopo aver offerto loro 40 mila dollari a film. La Paramount ne offrì 50 mila, Jerry Lewis – nato Levitch – accettò. “Quel che decide il mio socio è legge”, disse Dean Martin all’agente che voleva rilanciare con la Mgm. Non ci furono, fino al litigio del 1956, neppure i mancati riconoscimenti che causano rancori: era infatti opinione universalmente riconosciuta che “l’italiano” fosse la migliore spalla di sempre. Mai un tempo sbagliato in dieci anni (roba che si misura in respiri, non con i minuti dell’orologio). Solo complimenti: “Io da solo non avrei potuto far nulla, Dean Martin sarebbe potuto andare in scena da solo. Ma non era sicuro del proprio talento. E il pubblico è come una belva: se sente la paura ti sbrana”.
“I bambini quando canto io escono nell’atrio a comprare i popcorn”, suggerì la voce dell’insicurezza (mica tanto vero, a giudicare dal successo di “That’s amore”). Intanto Jerry Lewis si era innamorato del cinema, anche da regista. Aveva a noia lo slapstick, le smorfie, le torte in faccia. Voleva imitare Charlie Chaplin o Ernst Lubitsch, capaci di far ridere su Hitler e sull’Olocausto. Da qui il film “The Day The Clown Cried”, girato nel 1972. Nessuno lo ha visto, a parte qualche frammento. “Bruttissimo, imbarazzante, tremendo, voglio che nessuno lo veda mai”, disse il regista qualche anno fa. Speriamo lo abbia ribadito nel testamento: uno che ci ha fatto tanto ridere, maniacale nella sua perfezione anche se giocava al picchiatello, di certo non sbaglia.