La recensione di Fofi a Dunkirk svela l'ideologia in cui sguazza certa cultura

Michele Silenzi

La stroncatura del film di Nolan sembra scritta decenni fa

Goffredo Fofi, celebrato critico, è inquietante. Per comprenderlo è necessario leggere la sua analisi del film Dunkirk uscita venerdì 8 settembre sull’Internazionale. Christopher Nolan, l’autore, viene definito con disprezzo “un divo del jet-set anglostatunitense”, i critici che hanno apprezzato il film sono “pseudocritici del web, vittime consenzienti della stupidità programmata dai poteri (web = ragnatela, in cui il capitale contemporaneo cattura e divora o, al meglio, castra i moscerini che siamo)”. Poi se la prende con il titolo, che avrebbe dovuto essere tradotto nell’originale francese Dunkerque poiché “lasciare il titolo inglese è un atto di sudditanza imbecille”. Spielberg poi, di cui Nolan sarebbe soltanto un piccolo epigono, diventa il “maestro numero uno tra i registi tromboni”. Dunkirk viene infine ridotto a un film “tronfio, meccanico e noioso” che potrebbe spingere i giovani spettatori “in mano a governanti mascalzoni e a un capitalismo guerrafondaio che domina i mezzi di comunicazione e finanzia i Dunkirk a fungere da carne da macello per le guerre future”.

 

 

Goffredo Fofi è inquietante, non tanto per ciò che racconta sull’oggi, perché sull’oggi non dice nulla, il suo linguaggio appartiene a un mondo tramontato da decenni. E’ la luce che le sue parole proiettano sul passato a mettere i brividi e a far capire come la cultura italiana sia stata ostaggio, e in parte lo sia ancora, di questo tipo di maestri. Fa capire quanto possa essere profondo il gorgo ideologico in cui per decenni è stata sprofondata la nostra cultura. Facevi un film o scrivevi un libro al di fuori di determinati codici estetici, linguistici, morali, politici ed eri subito additato come nemico del popolo e servo del capitale. Il dramma di tutto questo è tuttavia ancora attualissimo perché il tessuto dello spirito e dell’intelletto umano è poroso. Quanto è penetrato in profondità questo tipo di approccio? Quanto è inestirpabile? Quanti sono i riflessi pavloviani che ancora ci portiamo dietro per rendere omaggio, inconsapevolmente e quindi in modo tanto più minaccioso, a questa cultura ideologizzata? Ce ne libereremo mai? Quando uscì Whiplash di Damien Chazelle, piccolo gioiello di un regista ventinovenne, Fofi la definì una “favola per gonzi di destra”. Negli Stati Uniti e da più parti anche in Europa, non la pensarono allo stesso modo e Chazelle andò avanti e fece La La Land. Che fine avrebbe fatto in Italia, in altri tempi, un regista che aveva fatto un film definito a quel modo?

 

Con la recensione di Dunkirk, tuttavia, così grossolana e partigiana, Fofi sembra stia implorando di essere smascherato. Come un colpevole dostoevskiano, incapace di reggere al peso del suo peccato, rivela se stesso in forma rocambolesca. Solo chi vuole essere smascherato può scrivere quello che ha scritto Fofi e, da addetto ai lavori, non accorgersi che Dunkirk è uno dei più importanti film degli ultimi anni. Un capolavoro che, nel moltiplicarsi delle meravigliose narrazioni delle serie tv attuali, ci fa capire quale sia lo scopo del cinema oggi, quale sia la sua missione artistica. Nolan risponde a questa domanda come prima non aveva fatto nessun altro, mettendoci di fronte a un formidabile prodotto sinfonico di un’ora e quarantacinque minuti che si muove come una struttura unica con lui come demiurgo-creatore in grado di generare un’opera perfetta per coordinazione tra linee di trama, struttura visiva (terra, aria, acqua) e musicale. Una compattezza artistica che risponde alla lunghezza infinita delle serialità televisiva e alle loro narrazioni classiche con la potenza di un insuperabile spettacolo visivo che trascende il cinema e i suoi schemi esaltandolo come opera totale.

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